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Ancora sulle 'concessioni di scavo': evitiamo la contrapposizione, favoriamo la collaborazione

È stata pubblicata il 9 febbraio 2015 la circolare n. 9 della DG Archeologia, a firma del neodirettore dott. Gino Famiglietti, relativa alle concessioni di scavo.

Ho la massima stima di Famiglietti, ne apprezzo il rigore etico e professionale e la competenza giuridica. Credo, però, che proprio la sua visione giuridica in questo caso abbia portato ad un eccesso di appesantimento burocratico di un operazione, come quella dello scavo, che andrebbe valutata soprattutto per la sua rilevanza scientifica e, nel caso dello scavo universitario, anche pe la sua portata didattica.

Il tema delle concessioni di scavo non è nuovo

Ad ispirare le recenti norme è la questione dei premi di rinvenimento, cioè la somma che lo Stato per legge deve allo scopritore e/o la proprietario del terreno nel quale avviene la scoperta. Per i premi di rinvenimento il MiBACT ha accumulato un debito notevole di 5 milioni di arretrati: il problema è grave ma non può essere risolto scaricando le responsabilità solo sugli scavi universitari (che peraltro rappresentano una percentuale ridotta degli scavi effettuati in Italia, pari a circa il 10%). Il problema esiste e non può essere sottovalutato: servirebbe anzi una iniziativa parlamentare per eliminare del tutto il cd. 'premio di rinvenimento', residuo di una concezione da caccia al tesoro dei beni culturali.

In particolare, le questioni meno condivisibili presenti nella circolare sono le seguenti:

1)   Le soprintendenze dovrebbero concedere la possibilità di scavare solo se l’intervento è "in piena coerenza con i programmi di ricerca messi a punto o già avviati da codesti Uffici” e se "ne venga evidenziata con chiarezza l'utilità, segnalando il valore e l'importanza che tali scavi rivestono nel programma generale di ricerca degli Uffici interessati, e ne venga valutata anche l'incidenza immediata e futura sulla gestione del territorio di competenza". È evidente che queste richieste intendono sottolineare la potestà esclusiva dello scavo archeologico da parte delle soprintendenze, caricando ulteriormente di un sapore ottocentesco e iperstatalista la procedura della ‘concessione di scavo’ (denominazione, appunto, da Stato ‘borbonico’). Insomma non esisterebbe alcun margine di libertà di ricerca in archeologia, in barba all’art. 33 della Costituzione! Se, infatti, uno scavo non è considerato ‘utile’ e ‘coerente con i programmi di ricerca della soprintendenza territoriale’ non si potrebbe fare! Si dimentica forse che l’università ha per funzione proprio la ricerca e anche la formazione dei futuri professionisti e anche dei futuri funzionari, soprintendenti e direttori generali del ministero; una formazione che è impossibile senza l’aspetto sperimentale, cioè, lo scavo archeologico e tutte le altre attività sul campo e in laboratorio, salvo che non si voglia pensare che un archeologo in formazione non abbia bisogno di imparare a scavare esattamente come un medico impara il mestiere frequentando le sale operatorie e le corsie di un ospedale.

2)   Si richiede "una dichiarazione di rinuncia al premio di rinvenimento da parte del concessionario, del direttore di scavo e dei vari operatori per i quali è richiesto il permesso di partecipazione allo scavo, debitamente firmata da ciascun interessato e corredata, per ognuno, di copia di un documento di identità in corso di validità”: la rinuncia al premio di rinvenimento è non solo legittima ma quasi ovvia, ma dovrebbe bastare quella presentata dal direttore dello scavo o, al massimo, anche dal direttore del dipartimento che presenta la richiesta; così come è concepita la circolare, sembrerebbe che la dichiarazione di rinuncia debba riguardare tutti, anche gli studenti; ma come può sapere al momento della presentazione della richiesta di concessione quali e quanti studenti parteciperanno ad un scavo che si potrebbe svolgere dopo molti mesi?

3)   Si richiede "una assunzione di obbligo, verso questa Amministrazione, da garantire anche mediante la stipula di un'apposita polizza fideiussoria, a tenerla indenne da qualsiasi azione di responsabilità per il caso di eventi dannosi a carico delle persone impegnate nelle operazioni di scavo, e a garantire la sicurezza di tutti gli operatori sul campo, con l'assunzione esplicita di tutti i relativi obblighi di legge”. Questa richiesta di fatto rischia di bloccare tutto, non solo perché rappresenta un ulteriore aggravio dei costi (e anche le università non navigano nell’oro, forse non lo si è capito) ma anche per l’ulteriore appesantimento amministrativo; quale Dipartimento accetterà di accendere la varie polizze fideiussorie per i vari scavi programmati?

4)   Si richiede che una cifra, “non inferiore al 15% dello stanziamento economico complessivo per la ricerca sia riservata espressamente al restauro”; è una richiesta comprensibile ma accentua ulteriormente le difficoltà di sostenibilità dello scavo; anche in questo caso mi sembra prevalere una visione burocratica: il 15% in alcuni casi è troppo poco (restauri di murature o di mosaici, etc.), in altri è esagerato (in un sito preistorico o altomedievale, con pavimenti in terra battuta e buche di palo, destinato ad essere ricoperto dopo lo scavo, cosa si vuol restaurare?).

Comprendo e condivido, invece, la necessità di garantire la completezza e la qualità della documentazione fornita al temine delle ricerche (cosa che già accade in larga misura). Forse però altrettanto rigore andrebbe riservato anche alle decine/centinaia di scavi non universitari con documentazione scadentissima (oltre che inaccessibile) e prive di ogni pubblicazione.

Insomma in tali condizioni è facile prevedere che gli scavi universitari, già molto ridottisi a causa dei forti tagli al finanziamento alla ricerca, soprattutto in ambito umanistico, si blocchino quasi del tutto, con grave danno per la ricerca, la formazione e anche la tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico del nostro Paese.

Se ci sono problemi (e certamente ci sono) relativi a eventuali scavi mal documentati e/o lasciati in condizioni inidonee, quasi di abbandono, al termine delle ricerche, si affrontino questi casi specifici e si impedisca in questi casi il rinnovo dell’autorizzazione; si colpisca cioè chi non lavora correttamente, ma non si danneggi l’intero mondo universitario! Da anni alcuni - tra cui io stesso – auspicano la nascita dei ‘policlinici dei beni culturali’, strutture miste tra università e soprintendenze per mettere insieme competenze, strutture, laboratori. Queste iniziative sembrano purtroppo andare in direzione del tutto contraria. Oltre ad appesantire ulteriormente la ricerca e la formazione di burocrazia, rischiano infatti di accentuare la contrapposizione tra soprintendenze e università, mentre si sta tentando di intraprendere la strada della collaborazione sistematica, come sembrerebbe indicato nella recente riforma del MiBACT, ad esempio, dall’istituzione della DG Educazione e Ricerca.
Purtroppo l'assenza in questo momento del Consiglio Superiore per i beni culturali e paesaggistici e dei Comitati Tecnico-Scientifici, in attesa di essere ricostituiti, impedisce prese di posizioni ufficiali di tali organismi consultivi, come sarebbe necessario e doveroso. 

Questa circolare sembra, peraltro, in linea con una pericolosa tendenza in atto da anni.

Già due anni fa una circolare del precedente direttore Luigi Malnati creò un vivace dibattito e forti critiche: segnalo a questo proposito un dossier nulla rivista PCA 2013, al quale io stesso ho partecipato, ora disponibile in open access:  
http://www.postclassical.it/vol.3_files/PCA3_Brogiolo.pdf 
http://www.postclassical.it/vol.3_files/PCA3_ardovino.pdf 
http://www.postclassical.it/vol.3_files/PCA3_volpe.pdf
http://www.postclassical.it/vol.3_files/PCA3_Zucca.pdf 

Mi auguro vivamente che questa vicenda possa trovare una soluzione ragionevole e soprattutto che si inauguri finalmente una stagione nuova nei rapporti tra Università e MiBACT, cioè tra due componenti dello stesso sistema pubblico, statale. Una stagione di rispetto reciproco, di collaborazione, di integrazione, di rilancio delle politiche dei beni culturali.


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