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C'è il "Marta" fra i 19 musei della riforma di Franceschini

Il MARTA, il Museo Archeologico di Taranto, di recente ampiamente (anche se non ancora completamente) rinnovato compare nella lista dei 19 musei per i quali la riforma del MiBACT prevede l’autonomia e la direzione affidata ad un dirigente. È solo una delle novità del progetto presentato dal ministro Dario Franceschini; un progetto definito ‘rivoluzionario’, una riforma coraggiosa e ambiziosa, anche se non priva di problemi. Il MARTA è affiancato, nelle regioni meridionali, dal Museo Archeologico di Reggio Calabria e da quello di Napoli, oltre a Paestum, Capodimonte, Reggia di Caserta. Nella lista compaiono ‘colossi’ come gli Uffizi o Brera. È un atto di attenzione per Taranto e per altre importanti realtà culturali del Sud, sulle quali s’intende investire. La scelta non ha tenuto conto tanto dei numeri, ma soprattutto dell’importanza culturale e anche del ruolo che ogni museo potrà svolgere nella propria realtà locale. Il MARTA nel 2013 ha avuto 27.000 visitatori circa (di cui 6500 paganti) e Reggio Calabria (un museo ancora quasi chiuso) solo 11.000 circa, mentre Paestum ha di poco superato quota 3000. È questa, però, una delle parti più contestate della riforma: si denuncia una presunta separazione dei musei dai territori e dalle rispettive soprintendenze. In realtà così non è: sia per i 19 musei, sia per i poli museali regionali, che la riforma prevede, si insiste sulla «elaborazione del progetto culturale di ciascun museo all’interno dell’intero sistema nazionale/regionale, in modo da garantire omogeneità e specificità di ogni museo, favorendo la loro funzione di luoghi vitali, inclusivi, capaci di promuovere lo sviluppo della cultura» e su «elevati standard qualitativi nella gestione e nella comunicazione, nell’innovazione didattica e tecnologica, favorendo la partecipazione attiva degli utenti e garantendo effettive esperienze di conoscenza». Contrariamente a quanto si legge in certi appelli e su alcuni giornali, mai si parla di generici manager, ma s’insiste sulla necessità di una gestione culturale più moderna per i nostri musei, con più servizi per i visitatori, cittadini e turisti, che si spera siano sempre più numerosi. Finalmente ci saranno concorsi aperti per archeologi, storici dell’arte, storici, ecc., magari giovani italiani al momento all’estero, con specifiche competenze museali. Far funzionare bene un museo, con una comunicazione efficace e servizi è una professione, di pari dignità rispetto alla ricerca e tutela. Inoltre, si «assicura una stretta relazione con il territorio, anche in relazione alle ricerche in corso e a tutte le altre iniziative, anche al fine di incrementare la collezione museale con nuove acquisizioni, di organizzare mostre temporanee, e di promuovere attività di catalogazione, studio, restauro, comunicazione, valorizzazione». I musei archeologici, inoltre, conservano una dipendenza funzionale dalla Direzione Generale ‘Archeologia’. È il caso di ricordare, peraltro, che il rapporto con un territorio non si riduce all’esposizione nelle vetrine di un po’ di reperti provenienti da un territorio, ma alla capacità di saperne raccontare la storia e anche di stimolarne la conoscenza e la progettazione futura. Quanti degli attuali musei rispondono a tali obiettivi? Purtroppo prevale un’idea ancora elitaria di museo e di patrimonio culturale.

Ma le novità non finiscono qui (lo spazio impedisce di approfondirle). Ad esempio la costituzione di un forte organismo collegiale, composto da tutti i soprintendenti, la ‘Commissione regionale per il patrimonio culturale’, che «coordina e armonizza l’attività di tutela e di valorizzazione nel territorio regionale, favorisce l’integrazione inter- e multidisciplinare tra i diversi istituti, garantisce una visione olistica del patrimonio culturale e paesaggistico, svolge un’azione di monitoraggio, di valutazione e autovalutazione». Personalmente avrei preferito soprintendenze uniche multidisciplinari a scala territoriale in sostituzione delle attuali direzioni regionali, ma la commissione regionale è un passo in avanti. O ancora la nascita di due DG, “Arte e architettura contemporanee e periferie urbane’ e ‘Educazione e ricerca’. Quest’ultima in particolare punta a un ripensamento del rapporto tra MiBACT e MIUR, con collaborazioni sistematiche, progetti comuni, in vista anche dell’istituzione di strutture miste università-soprintendenze, veri e propri policlinici dei beni culturali e del paesaggio’, per coniugare formazione, ricerca, tutela e valorizzazione. L’integrazione di docenti, ricercatori, tecnici, funzionari e di laboratori, biblioteche, strumentazioni, potrebbe garantire risultati positivi per tutti, in particolare per gli studenti, futuri funzionari delle soprintendenze o liberi professionisti, esattamente come accade per i futuri medici nelle sale operatorie e nelle corsie delle cliniche universitarie. La Puglia ha tutte le carte in regola per candidarsi a questa sperimentazione.

Tutto bene dunque? Certamente no, la riforma ha anche aspetti da migliorare. Ma molto dipende da come sarà applicata, in un paese specializzato nello stravolgimento anche di buone norme. Se prevarranno la difesa di micro-rendite di posizione, la chiusura, l’incapacità di lavorare insieme, il conservatorismo degli apparati, il fallimento è garantito. La ricchezza e la qualità della tradizione italiana nei beni culturali, se non è alimentata, diventa un ostacolo nella capacità di guardare al futuro. Così gli oppositori ad ogni cambiamento rischiano di essere i migliori alleati di chi considera il patrimonio culturale una ‘zavorra’ che blocca lo sviluppo (un’idea rozza e arcaica di sviluppo), mentre la sfida consiste nel proporre nuove e diverse forme di sviluppo durevole e sostenibile (soprattutto al Sud) grazie anche al patrimonio culturale e paesaggistico. Ma il successo dipenderà anche dalle risorse disponibili, dalla ripresa del turn-over, dal reclutamento di funzionari tecnico-scientifici, giovani, con nuove competenze, sensibilità e passione.

 


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