Blog

"Cent'anni di solitudine". I ritardi della tutela e la necessità di un profondo ripensamento

‘1913-2013. Cent’anni di solitudine. L’archeologia tra ritardi legislativi e nuove sfide per la pianificazione territoriale’
(Roma, Camera dei Deputati, 5.6.2013) 

relazione di Giuliano Volpe

 

In questo mio intervento riproporrò alcune considerazioni che da tempo vado proponendo, nella convinzione che sia necessario e ormai improcrastinabile un profondo ripensamento dell’attività di conoscenza, tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico, e più in generale  culturale e paesaggistico.

 

Contro la settorialità, per la globalità

L’archeologia si è andata rinnovando radicalmente nell’ultimo mezzo secolo, ha modificato i suoi metodi e i suoi obiettivi: dall’antico come luogo privilegiato del passato all’intero arco di tempo dell’esperienza umana, dal vecchio continente all’intero pianeta, dagli aspetti culturali a quelli (anche) ambientali, dall’evoluzione storica alla prospettiva (anche) antropologica, dallo studio della forma a quello della materia, dal privilegio per l’arte a quello (onnicomprensivo) per i prodotti del lavoro. Ma a fronte di questi cambiamenti, nel Mibac resta ancora la denominazione Direzione alle Antichità e nei settori scientifico-disciplinari del MIUR le archeologie sono ancora indicate con le sigle L-ANT e fanno parte dell’area 10 ‘Scienze dell’Antichità filologico letterarie e storico-artistiche’: è evidente che non si tratta solo di una mera questione di sigle e denominazioni ma di indizi di un vero ritardo culturale e organizzativo.

Si va sempre più affermando un’archeologia realmente globale, che privilegia l’impiego integrato di una moltitudine di approcci, di fonti e di strumenti di indagine diversi e si avvale dell’apporto di una pluralità di discipline umanistiche e scientifiche, di tecniche e tecnologie innovative (Manacorda 2008; Volpe 2008). Si tratta, cioè, di passare da una ‘archeologia statica’ e settoriale ad una «archeologia dinamica che cerca di definire l’evoluzione degli ambienti socioculturali nella diacronia» (Brogiolo 2007). Contestualmente all’innovazione metodologica, si è andato affermando un nuovo ruolo culturale e sociale: non a caso si va sviluppando anche in Italia l’archeologia pubblica.

A fronte del profondo processo di rinnovamento dell’archeologia in relazione alle fasi della ricerca, dalla diagnostica allo scavo stratigrafico e all’archeologia dei paesaggi, alle applicazioni delle scienze e delle tecnologie innovative, si registra un ritardo culturale e organizzativo nel sistema di tutela, definito agli inizi del secolo scorso e sostanzialmente legato ancora ad una concezione ottocentesca, caratterizzata da un’impostazione antiquaria e accademica. Gli sconvolgimenti legislativi e organizzativi degli ultimi decenni hanno reso questa struttura ancor più farraginosa ed elefantiaca, senza, però, mai mettere in discussione la sostanza, le finalità e gli esiti della tutela. I rischi di tale situazione sono assai gravi: oltre alla perdita di interi insiemi di dati, un danno ancor più rilevante consiste nella progressiva perdita di un ruolo nella società, nell’incapacità di coinvolgimento di ampi settori della popolazione in un’azione condivisa di salvaguardia e valorizzazione di un bene comune, nell’affermazione di una concezione esclusivamente turistica ed economicistica dei beni culturali (pur non essendo affatto da sottovalutare il loro apporto in termini di sviluppo anche economico), nell’identificazione della tutela solo con un’iniziativa di tipo repressivo e poliziesco, avvertita come fastidiosa e inutile, anche perché resa spesso inefficace a causa dell’inefficienza del sistema

La risposta a questi problemi non può più consistere semplicemente nell’arroccamento e nella difesa della situazione esistente o addirittura in un irrealistico e anacronistico ritorno al passato o tradursi nella mera denuncia (peraltro giusta e necessaria) delle sempre maggiori difficoltà in cui operano le Soprintendenze, prive di mezzi e di personale adeguati ai compiti assegnati.

Chi pone fortemente, come lo scrivente, il problema di un ripensamento profondo del sistema della tutela non condivide affatto certi atteggiamenti strumentalmente ostili al Ministero, tipici di certi ambienti, ma al contrario propone una battaglia nel senso dell’innovazione, fatta per il rilancio di strutture e attività ormai irrimediabilmente in crisi, con un sincero sostegno alle Soprintendenze e ai colleghi che in quelle strutture tra mille difficoltà operano. Negare la crisi, questa sì che è una posizione che porterà inevitabilmente alla dissoluzione, prima o poi, del sistema. Troppo spesso si ha l’impressione di intravvedere nell’atteggiamento di conservazione dello status quo di tanti colleghi l’immagine di un soldato messo a guardia di un bidone di benzina: un bidone, però, ormai vuoto. Un soldato, che, impegnato in battaglie contro presunti nemici esterni, non si rende conto che in realtà il tarlo sta operando all’interno del sistema della tutela.

Nel Ministero, e in particolare nelle sue articolazioni periferiche, ai problemi legati alle scarse risorse, allo scarso personale, sempre più anziano, al limitatissimo turn over, si associa una diffusa sensazione di impotenza e di frustrazione, che spesso si traduce in arroccamento, in difesa di rendite di posizione, in contrapposizioni contro altri componenti dello stesso Stato, con le quali, al contrario, oggi più che mai sarebbe necessaria, anzi obbligata, un’alleanza.

L’affermazione del fondamentale e insostituibile ruolo pubblico della tutela non può, infatti, non tradursi in un radicale riesame del significato stesso della tutela e nella progettazione di nuove soluzioni adeguate ai tempi. «Se il passato è di tutti, il problema si sposta sulle forme in cui mettere tutti in condizione di possederlo, cioè di conoscerlo: è dunque un problema politico» (Manacorda 2008). La perdita di solidarietà, di sostegno, di attenzione, non solo da parte del ceto politico, ma anche, cosa più importante, da parte della società in cui operiamo, rischia di accelerare l’inesorabile disgregazione, a cui da tempo assistiamo, del sistema della tutela.

Nell’opera di tutela e valorizzazione, come in quella di ricerca, andrebbe abbandonata definitivamente una concezione ‘puntiforme’, limitata al singolo sito o manufatto, cioè quella visione ‘filatelica’ dei beni culturali che finisce per considerare i singoli ‘beni’ come francobolli, estendendo l’azione ad interi contesti territoriali. La nuova parola d’ordine deve essere, quindi, globalità: e, prima di tutto, globalità di approccio, di fonti, di strumenti, di competenze, di sensibilità. Salvatore Settis insiste da tempo sulla vera peculiarità dei beni culturali italiani, cioè la presenza diffusa, il continuum di beni, grandi e piccoli, nelle città, nelle campagne, lungo le coste, nelle acque, che contrasta con l’idea, finora prevalente, della tutela, che nella prassi finisce per frantumare proprio quel continuum peculiare del nostro patrimonio culturale (Settis 2002; Id. 2010). La specificità del nostro patrimonio culturale consiste invece nell’integrazione tra beni culturali e paesaggio.

Come ha più volte sottolineato Riccardo Francovich, bisogna esser consapevoli che «la tutela non è l’esercizio di un’azione asettica e oggettiva, ma l’opzione operata sulla base di scelte che cambiano nel tempo e nella qualità della formazione di chi la esercita; … è ovvio che più soggetti, più sensibilità e ‘saperi’ nuovi saranno inclusi nei processi decisionali, maggiori prospettive esisteranno per chi intende contribuire alla soluzione dei problemi della salvaguardia e della valorizzazione del patrimonio» (Francovich 2004). Basti pensare all’enorme dilatazione dei campi di applicazione dell’archeologia dalla preistoria più remota all’età moderna e contemporanea, all’estensione del concetto stesso di reperto a tutti gli oggetti fino alle soglie della contemporaneità, ben oltre gli ormai tradizionali confini della stessa età medievale, all’attenzione ora riservata non solo ai manufatti ma anche agli ecofatti e all’ambiente. Solo il coinvolgimento di più soggetti e competenze potrebbe aprire maggiori prospettive per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio.

Andrebbero pertanto ripensati il ruolo e la struttura del Ministero per i Beni e le Attività culturali, riportato all’originaria fisionomia tecnico-scientifica, superando l’attuale conflitto di funzioni e di competenze tra centro e periferia e la confusione di ruoli tra Soprintendenze (settoriali e territoriali), Direzioni Regionali (uniche e territoriali) e Direzioni Generali (settoriali e nazionali).

È improprio, infatti, concentrarsi su un’alternativa tra centralismo e decentramento, mentre dovremmo preoccuparci di trasformare le strutture della tutela da apparati corporativi e autoreferenziali in strutture inclusive, capaci di coordinare, nell’interesse generale, le attività di studio, di salvaguardia e di valorizzazione del patrimonio culturale.

Servirebbero un centro agile, forte ed autorevole, con compiti di indirizzo, coordinamento e rigido controllo, garante di una politica di tutela organica sull’intero territorio nazionale, e unità operative periferiche uniche e non più settoriali. Strutture periferiche fondate su reali e strette collaborazioni, a livello locale, tra tutte le componenti del sistema pubblico. Collaborazioni non più legate esclusivamente ai momentanei buoni rapporti tra il singolo ricercatore e il soprintendente o il funzionario di zona, ma inserite in un sistema organico.

Se anche i più giovani funzionari, magari da poco usciti dall’alta formazione universitaria, dopo poco tempo, finiscono per assumere gli stessi atteggiamenti di chiusura e di arroccamento nella difesa di una concezione proprietaria del territorio e del patrimonio archeologico, bisogna concludere che non si tratta di atteggiamenti individuali, in alcuni casi certamente patologici, ma di una anomalia del sistema.

Si potrebbe, al contrario, dar vita anche a unità operative miste delle Soprintendenze, delle Università, delle Regioni e degli Enti locali, veri e propri ‘policlinici dell’archeologia’ (secondo una felice definizione proposta in varie occasioni da Andrea Carandini) (Carandini 2012) o, meglio, policlinici dei beni culturali e del paesaggio’ (secondo una proposta spesso avanzata da chi scrive), aperti all’innovazione metodologica e tecnologica. È fin troppo evidente che la definizione di ‘policlinico’ è solo esemplificativa e quasi provocatoria, anche nella consapevolezza che essa non è sempre legata, in ambito sanitario, ad un’idea di efficienza. Gli strumenti diagnostici tipici delle moderne discipline dei beni culturali e dei paesaggi, dal telerilevamento alle prospezioni geofisiche, dalle applicazioni scientifiche in campo bioarcheologico e geoarcheologico all’archeometria e al restauro, dalla ricognizione sistematica allo scavo, dalle nuove tecniche di rilievo, documentazione e comunicazione ai sistemi informativi territoriali, potrebbero offrire un contributo straordinario. Solo così si potrebbe attuare una più efficace opera di tutela e valorizzazione diffusa, attenta ai contesti territoriali, ai centri storici e ai paesaggi stratificati, collegandola strettamente alla ricerca, abbandonando vecchie rendite di posizione, separando la gestione dal controllo (ancora oggi nelle stesse mani), e soprattutto avviando politiche ‘inclusive’ e non esclusive e ottusamente centraliste e superando definitivamente quel conflitto che oggi contrappone Soprintendenze, Università ed Enti locali, mettendo in comune strutture, competenze, professionalità (Volpe 2008).

Emblematica dell’attuale situazione è la recente vicenda delle ‘concessioni di scavo’, una procedura, che anche nella denominazione conserva un sapore ottocentesco e che negli ultimi anni si è andata sempre più appesantendo dal punto di vista burocratico-procedurale. Senza entrare nei dettagli, lasciando da parte il tema assai problematico del premio di rinvenimento ed anche di una serie di inadempienze da parte universitaria, giustamente da censurare quando ci sono, voglio solo ricordare l’attività formativa universitaria ormai include organicamente nei curricula archeologici le attività sul campo. È questo l’effetto di un profondo cambiamento dell’idea stessa di archeologia, oggi non più immaginabile senza l’aspetto sperimentale del lavoro appreso su uno scavo o in un laboratorio. Ormai non c’è più – e per fortuna – una sola Università che non preveda l’inserimento formale delle attività di scavo nei piani di studio e nei contratti formativi con gli studenti, a volte anche con l’erogazione di un numero significativo di crediti. Alcuni decenni orsono gli scavi universitari in Italia si contavano sulle dita di una mano e la partecipazione degli studenti riguardava numeri ridottissimi, mentre oggi centinaia di allievi sono coinvolti in attività sul campo di varia natura. Pensare che questo tipo di formazione possa o debba essere svolta solo nelle énclaves dei parchi archeologici significa limitare, o almeno fortemente condizionare, il curriculum di formazione archeologica. Una delle critiche, che spesso i colleghi delle Soprintendenze ed anche, ora, gli archeologi professionisti, che sempre più numerosi operano in Italia, rivolgono – a mio parere, in alcuni casi, a ragione – alla formazione archeologica universitaria, riguarda proprio quel clima ‘sereno’ e ‘tranquillo’, con tempi rilassati e procedure raffinate tipiche di uno scavo universitario. La critica è, certamente, ingenerosa ed ingiusta (cantieri nei quali ci sia la necessaria tranquillità per capire come operare correttamente sono indispensabili anche per prepararsi ad affrontare in futuro situazioni di emergenza), ma sottolinea il rischio di un’eccessiva separazione tra uno stile di ricerca universitaria e la ‘dura realtà’ della professione dell’archeologo: i cantieri di scavo professionale sono di tutt’altra natura, caratterizzati spesso da tempi strettissimi e stressanti, da difficili condizioni operative tipiche dell’archeologia preventiva, dei cantieri edili o delle grandi opere, tra rigide norme di sicurezza, problemi logistici, attenzione agli aspetti contrattuali ed economici. Ebbene, la soluzione per evitare questa separazione dovrebbe prevedere un coinvolgimento sempre maggiore delle Università anche in questo tipo di operazioni, non già la loro emarginazione in ‘aree protette’. Non si riflette forse abbastanza sul ruolo svolto dall’Università per garantire una formazione qualificata e adeguata ai tempi degli stessi funzionari del MiBAC oltre che dei liberi professionisti Anche per questo motivo servirebbero politiche capaci di avvicinare ed integrare le tre componenti dell’archeologia moderna: Soprintendenze, Università e professionisti. Limitare, al contrario, l’attività universitaria sul campo non può non avere, infatti, ripercussioni negative per la stessa creazione di figure professionali con competenze adeguate alle nuove sfide del mondo del lavoro, tanto nel caso dei futuri funzionari delle Soprintendenze quanto in quello degli archeologi impegnati nelle varie attività svolte per conto delle stesse Soprintendenze.

Il tema del premio di rinvenimento è, però, solo un aspetto, e non il più rilevante,

Condivido la necessità di effettuare controlli severi e di limitare o bloccare le attività nel caso di gravi inadempienze, come nel caso di scavi universitari rimasti inediti, privi delle relazioni e di documentazioni adeguate. Ebbene, non si autorizzino questi scavi universitari, ma non si penalizzi l’intero sistema in maniera indiscriminata. Del resto, problemi analoghi riguardano anche gli scavi condotti dalle Soprintendenze: la montagna di inedito costituisce un vero dramma dell’archeologia italiana, mentre per centinaia di scavi non si dispone, negli archivi delle stesse Soprintendenze, di una pianta o di una scheda e spesso si impedisce ad un ricercatore di prendere visione di materiali o dati di scavi inediti da decenni: non mi sembra che queste situazioni abbiano mai impedito ad alcuni di continuare a condurre attività sul campo. Quanto alle Università, sarebbe auspicabile l’adozione di una sorta di codice di comportamento, con precisi obblighi in relazione alla corretta esecuzione degli interventi, alla rapida pubblicazione scientifica e divulgativa, al ripristino del terreno dopo lo scavo e ad interventi di conservazione e/o di valorizzazione.

Ricordo  che l’articolo 88 del D.Lgs. 42/2004 riserva esclusivamente al Ministero (MiBAC) «le ricerche archeologiche e, in genere, le opere per il ritrovamento delle cose … in qualunque parte del territorio nazionale», mentre, significativamente, il precedente articolo 85 del D.Lgs. 490/1999 attribuiva questa competenza allo ‘Stato’. Con un emblematico passo indietro nel tempo, le norme del 2004 hanno riproposto quanto prevedeva la legge Bottai (art. 43, L. 1089/1939) che assegnava al «Ministro per l'educazione nazionale» la «facoltà di eseguire ricerche archeologiche». In tale ritorno all’esclusività ministeriale, al posto di una visione globale e più articolata dello Stato, si nasconde, a mio parere, molto più di quanto possa apparire a prima vista. Non solo, infatti, si ripropone una visione alquanto arcaica della ricerca archeologica, quasi coincidente con «le opere per il ritrovamento delle cose», che speravamo definitivamente superata, ma soprattutto – ed è questo ciò che maggiormente conta – si ratifica una netta separazione tra il Ministero per i Beni Culturali e le Università, limitando oggettivamente, come si è detto, la ricerca scientifica e la formazione, anche con legittimi dubbi di incostituzionalità

 

Innovare per valorizzare una gloriosa tradizione

L’Italia ha un glorioso e riconosciuto primato nel campo degli studi e della tutela del patrimonio culturale; un primato che stiamo progressivamente depauperando. La forza, la qualità e la ricchezza di tale tradizione non devono costituire, però, un impedimento nella capacità di guardare al futuro. Da anni, invece, siamo bloccati all’interno di un sistema stanco, esausto, incapace di esprimere quella vitalità che pure possiede ancora, insieme a straordinarie competenze e professionalità. Posizioni contrapposte si ostacolano vicendevolmente, ancorate a certezze inossidabili, che non consentono di vedere la ruggine che sta corrodendo dall’interno il sistema.

Non è più accettabile una visione che separa pezzi di un patrimonio unitario, le architetture e le opere d’arte dalle stratificazioni poste al disotto, le strutture murarie dalle pitture o dalle sculture, i mosaici dagli spazi di cui erano parte, i monumenti dalle strade, le città dal territorio rurale. Per questo ritengo che sarebbero più efficaci strutture periferiche capaci di affrontare il tema del patrimonio culturale e paesaggistico con una visione olistica, superando la concezione settoriale che frammenta un insieme organico in distinzioni di tipo disciplinare – queste sì accademiche – quali ‘bene archeologico’ o ‘bene architettonico’ o ‘bene artistico’, che poco ci dicono sulla reale natura dei beni culturali. Dovremmo al contrario organizzare una tutela innovativa capace di superare la separazione tra categorie di beni, coinvolgere più competenze in equipe miste, abbandonare assurde e anacronistiche divisioni cronologiche, che si traducono a volte anche in conflitti tra Soprintendenze settoriali e/o tra queste e studiosi impegnati in attività di ricerca.

L’elemento comune, il tessuto connettivo, il filo che lega tutti gli elementi del patrimonio culturale è il paesaggio, che va, pertanto, posto al centro dell’azione di tutela, con le sue stratificazioni, le sue architetture, i suoi arredi e corredi d’ogni tempo, gli uni indissolubilmente legati agli altri. Dovremmo finalmente, cioè, considerare globalmente l’insieme delle opere dell’uomo e della natura, così come si sono storicamente stratificate nello spazio e nel tempo, con una visione globale, diacronica e contestuale. Un approccio che dovrebbe coniugarsi strettamente con la pianificazione urbanistica e territoriale.

Il mondo dell’Università ha le sue enormi responsabilità e la mia non è e non viuole essere una difesa di casta. Penso, infatti, che un’analoga innovazione dovrebbe, ovviamente, riguardare anche il mondo della formazione, considerando le Università non più il luogo nel quale si formano professionalità improbabili nel campo dei beni culturali, ma il luogo nel quale, in stretta collaborazione con le Soprintendenze (esattamente come avviene in campo medico nelle Aziende Ospedaliere Universitarie), i giovani possano confrontarsi direttamente con le diverse realtà del patrimonio culturale, misurandosi con problemi concreti, come fanno i medici in formazione operando nei policlinici. Le Università dovrebbero saper rendere più omogenei a livello nazionale i percorsi formativi, eliminare l’eccesso di frammentazione e di duplicazione di corsi di studio di primo e secondo livello e delle Scuole di Specializzazione, dar vita a corsi inter-ateneo di maggiore qualità. Un progetto interessante potrebbe riguardare la creazione di un corso quinquennale a ciclo unico in Beni Culturali, con diversi indirizzi (che superi l’attuale sistema 3+2, particolarmente inadeguato in questo campo), da elaborare in stretta collaborazione tra MIUR e MiBAC.

Uno Stato forte e maturo dovrebbe saper manifestare la sua autorevolezza anche nella consapevole cessione di potere, separando la gestione dal coordinamento/controllo/valutazione, superando, cioè, l’assurda concezione ‘proprietaria’, oggi prevalente. Troppo spesso si registrano, infatti, situazioni di oggettivo conflitto di interesse tra gestione e controllo e, in alcuni casi estremi, anche anomali e poco trasparenti rapporti con le imprese che finanziano i lavori e le società di ricerca archeologica e/o i singoli archeologi professionisti impegnati nelle ricerche archeologiche, spesso posti in una posizione di oggettiva subalternità, se non di vero e proprio ricatto. Andrebbero, al contrario, realizzati processi realmente inclusivi che favoriscano processi di sistematica collaborazione con il mondo universitario e della ricerca, di partecipazione attiva della cittadinanza, di coinvolgimento dell’associazionismo, di fondazioni di partecipazione, certamente con le necessarie forme di sostegno, indirizzo e monitoraggio.

Ancora. Andrebbe istituita un’agenzia indipendente per la valutazione della qualità della tutela dei beni culturali e paesaggistici, capace di indicare parametri, standard qualitativi, protocolli, di premiare e incentivare le buone prassi, di valorizzare l’ottimo lavoro di tutela e di ricerca svolto da numerosi funzionari e, quando necessario, di censurare, sulla base di dati certi e di valutazioni rigorose, pratiche e operazioni di basso profilo.

Infine, uno Stato libero, aperto, europeo, dovrebbe saper garantire e favorire l’accesso ai dati e la loro libera circolazione, contro una concezione proprietaria che ancora oggi impedisce assurdamente, nel rispetto di leggi anacronistiche nell’età del web, dell’open access e degli open data, anche la libera riproduzione dei beni culturali pubblici.

Concludendo queste note, che non hanno alcuna pretesa di indicare soluzioni univoche, ma che intendono esclusivamente proporre alcune riflessioni e suggerire qualche spunto propositivo, mi auguro che possa svilupparsi presto un confronto ampio, libero, costruttivo.

Ci sono ampi margini per introdurre importanti innovazioni positive anche utilizzando le attuali norme vigenti. Si tratta di innovazioni che non richiedono investimenti (che pure sarebbero necessari, in maniera adeguata, per rilanciare la conoscenza, la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico) e, pur essendo pertinenti alla sfera culturale e teorica, potrebbero avere immediate ricadute nella gestione del patrimonio e nella formazione di chi sarà domani chiamato a gestirlo.

In realtà, bisognerebbe uscire definitivamente da una logica di contrapposizione e avviarsi finalmente, tutti insieme, verso una visione di sistema statale integrato. Per questo ribadisco che il problema reale non è (soltanto) economico ed organizzativo quanto metodologico, culturale e politico. Ritengo, infatti, che se oggi, per effetto di una sorta di miracolo, fossero disponibili ingenti risorse, i problemi reali della ricerca, della tutela e della valorizzazione del patrimonio archeologico non sarebbero risolti, come non lo erano quando, anche in un recente passato, le risorse erano certamente maggiori di quelle attuali.

Bisognerebbe avere la capacità di innovare, guarendo dalla sindrome del torcicollo, che porta molti a guardare (rimpiangendolo) solo al passato e impedisce di cercare soluzioni condivise e innovative per il futuro.

È un’impresa non facile, impegnativa, faticosa, perché richiede il coraggio della politica e la capacità creativa dei tecnici, necessita di generosità e di voglia di rimettersi in gioco, scuote strutture organizzative quasi secolari, anelastiche ed anchilosate, sconvolge il quieto vivere burocratico e si oppone all’inerzia di chi intende conservare posizioni di rendita.

Ma è anche un’impresa esaltante, oltre che necessaria ed improcrastinabile, che richiede l’apporto attivo di tutti.

 

 


<< Indietro

Ultimi post

La zone d'interesse

Visto “La zona d’interesse”, film di Jonathan Glazer, duro e doloroso come un pugno nello stomaco ripetuto continuamente con colpi ritmici,...

Killers of the Flower Moon

Visto, giorni fa (e purtroppo non al cinema, dove lo avevo perso) Killers of the Flower Moon, film epico (anche per la durata) di Martin Scorsese, grande...

La società della neve

Visto su Netflix la Società della neve, film drammatico, duro, a tratti sconvolgente, che racconta la nota vicenda del gruppo di ragazzi di una squadra...

L'educazione delle farfalle

Letto L'educazione delle Farfalle di Donato Carrisi, regalatomi da una amica che conosce la mia passione per i Thriller. Non avevo mai letto nulla di Carrisi...