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Convegno Nazionale FAI, 17.4.2015: Un piano strategico per l’Area Archeologica di Roma

Un piano strategico per l’Area Archeologica di Roma

Giuliano Volpe

 

Sono molto grato al FAI e al presidente Carandini per l’opportunità di illustrare sia pur brevemente alcuni risultati del lavoro svolto dalla Commissione paritetica costituita dal Mibact e da Roma Capitale per l’elaborazione di uno studio preliminare a un progetto strategico per l’Area Archeologica centrale di Roma. Ringrazio in particolare il ministro Franceschini per la fiducia accordatami nel designarmi alla presidenza di questa commissione e tutti i colleghi che hanno partecipato ai lavori, condotti con ritmi intensi in pochi mesi, in maniera estremamente competente e generosa. La relazione, consegnata nel pieno rispetto dei tempi assegnati il 30 dicembre scorso, è disponibile sul sito web del ministero per cui tutti gli interessati possono leggerla. Qui mi preme indicare solo alcuni punti della visione, a mio parere molto innovativa, che abbiamo proposto.

Si tratta di un tema di enorme complessità, al centro del dibattito politico, culturale, urbanistico almeno dal tardo 700, prima con il progetto napoleonico per il Giardino del Campidoglio di Louis-Martin Berthault, 1771-1823), e poi, in particolare dall’Unità d’Italia, con i piani regolatori del 1873, del 1883 e del 1909 nei quali era già prevista la realizzazione di un asse di collegamento tra l’area di Piazza Venezia e quella del Colosseo. Asse poi effettivamente creato con gli sventramenti di epoca fascista, che portarono all’eliminazione del quartiere dei Pantani e di buona parte della Velia, con la nascita di via dell’Impero, con il suo carico d’ideologia e di retorica. Il dibattito, dopo decenni di disinteresse e di sostanziale silenzio, mentre quest’area era invasa dalle automobili, si riaccese tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, in particolare con le iniziative delle Giunte dei sindaci G.C. Argan, L. Petroselli e U. Vetere, anche a seguito del grido di allarme sul grave stato di degrado dei monumenti lanciato dal soprintendente A. La Regina e all’attivo impegno di numerosi intellettuali, tra i quali è sufficiente ricordare il nome di A. Cederna. Un impulso particolare si ebbe a seguito della Legge del 1981 (n. 92 Provvedimenti urgenti per la protezione del patrimonio archeologico di Roma) del ministro O. Biasini. Fece seguito la stagione della prima pedonalizzazione e delle estati romane e l’avvio di una proficua stagione di scavi e di ricerche. Numerosi sono stati nel corso degli anni gli studi, le commissioni e i progetti, tra cui quello di Leonardo Benevolo e ultimamente quello di Raffaele Panella, che in qualche modo indicano due visioni diverse, quella del ‘parco archeologico’, protetto e separato, e quella di un’area archeologica integrata nella città. Come si è giustamente fatto notare «tutti ci battiamo per il Parco per cui si [è battuto] Antonio Cederna, ma alla fine abbiamo in mente un modello diverso». Un tema da sempre al centro del confronto e anche dello scontro, spesso divenuto quasi un’ossessione ‘ideologica’, ha riguardato l’eliminazione o conservazione o trasformazione di Via dei Fori Imperiali, con le questioni legate anche alla sua pedonalizzazione e/o carrabilità parziale o totale, riservata ai soli mezzi pubblici o estesa al traffico privato.

Rispetto a 30-40 anni fa, le conoscenze sono aumentate enormemente, grazie a grandi progetti di scavo, a studi, a interventi di restauro, ma sono aumentati anche i problemi urbanistici e culturali. Ecco perché non sono sufficienti soluzioni semplicistiche, univoche, prive di organicità e di coerenza, come anche sottolinea anche l’Unesco. Oggi viviamo finalmente una nuova stagione progettuale, grazie al coraggio e alla lungimiranza del ministro Franceschini e del sindaco Marino; un rinnovato impegno che lascia molto ben sperare e che riteniamo vada sostenuta con decisione da parte di tutte le istituzioni e in particolare della società civile.

Riteniamo in particolare che sia giunto il momento di superare le posizioni contrapposte, riconciliando le diverse prospettive e proponendo una sintesi qualitativamente superiore. Nessuna categoria e nessuna disciplina può, infatti, pretendere in maniera autoreferenziale di avere la soluzione. La complessità del tema e la ricchezza stratificata del patrimonio culturale di questa parte della citta (la più grande area archeologica urbana!) richiedono innanzitutto nuove forme di condivisione e coordinamento organico tra i diversi attori, statale e comunale: basti pensare all’intricato, incomprensibile e paralizzante puzzle delle proprietà e delle aree di competenza. Non solo: sono necessari un approccio inter- e multidisciplinare e di una visione olistica del patrimonio culturale, una capacità progettuale, una reale volontà di coinvolgimento attivo della cittadinanza, del mondo  della cultura, delle professioni, dell’associazionismo culturale. Bisognerebbe sapere riconciliare la tutela con la valorizzazione, la conservazione con la fruizione innovativa, ma innanzitutto l’antico con il moderno, anche nella consapevolezza che il paesaggio archeologico dell’area centrale che noi oggi conosciamo non è un paesaggio antico, ma un paesaggio moderno, frutto delle tante trasformazioni verificatesi nel corso dei secoli. Questa consapevolezza deve obbligarci ad una maggiore responsabilità progettuale. Oggi siamo in grado di guardare con maggiore distacco alle scelte ideologiche degli sventramenti e alla realizzazione di Via dei Fori Imperiali, ma dovremmo anche evitare una posizione rozzamente storicistica, che ritenga di dover congelare e conservare tutto quello che è stato fatto prima di noi e attribuire alla nostra epoca esclusivamente il compito di lasciare ciò che c’è così com’è. Al contrario l’area centrale può e deve essere, per la sua importanza di livello mondiale, un grande campo di sperimentazione e innovazione.

Dobbiamo sempre ricordare che l’area centrale, pur con le sue peculiarità identitarie e la straordinaria complessità storica, contiene una parte del potenziale archeologico e culturale di Roma, che è diffuso in tutta la Città, nelle periferie, nel suburbio, lungo l’Appia antica, nel territorio laziale. Anche solo per questo motivo sarebbe un errore culturale e metodologico separare l’area centrale dal resto della Città, considerandola un ‘Parco Archeologico’ che finirebbe per essere frequentato solo dai turisti, rappresentando un ‘vuoto’ nella città che espelle i cittadini, una sorta di ‘non luogo’ (un paradosso per un luogo, unico al mondo, così ricco di valori culturali e di identità): essa rappresenta semmai il cuore della città antica e della città moderna, il nucleo di un sistema assai più complesso e articolato. Si tratta di uno spazio che deve restare vitale e vivo, capace di rendere esplicito il senso dei luoghi e dei monumenti, con azioni organiche di tutela, cura, manutenzione ordinaria, valorizzazione, comunicazione, adeguatamente dotato di servizi e in grado di contribuire al miglioramento della qualità della vita urbana, uno spazio ricco di valori culturali che favorisca la socializzazione e la profonda cura di sé.

In questo senso occupa un ruolo fondamentale la comunicazione. Ancora troppo spesso i nostri musei presentano verbosi e illeggibili pannelli e oscure didascalie scritte nel tipico linguaggio esoterico degli specialisti. La divulgazione è ancora considerata un fatto marginale. La comunicazione dovrebbe al contrario assumere un’importanza pari a quella della tutela e, soprattutto, non può più essere concepita in maniera unidirezionale, esclusivamente passiva, ma dovrebbe puntare a un coinvolgimento attivo del pubblico, in coerenza con la filosofia del web 2.0 e dei social network. La buona comunicazione è necessaria per contrastare la cattiva divulgazione, fatta di sensazionalismo, di misteri e di fantarcheologia.

Una comunicazione moderna, infatti, dovrebbe essere in grado di rendere comprensibile la globalità e la complessità, dovrebbe essere in grado di utilizzare correttamente le tecnologie, dovrebbe saper proporre un racconto e stimolare la partecipazione attiva. Le tecnologie innovative e i nuovi media mettono a disposizione degli archeologi strumenti descrittivi, interpretativi e comunicativi potentissimi. Bisognerebbe saper proporre un racconto, narrando le storie stratificate nei paesaggi o racchiuse in un manufatto, in maniera chiara, comprensibile, avvincente, emozionante, divertente, in modo da suscitare curiosità ed anche gioia, a partire dai bambini. Il vero nodo è dunque culturale e metodologico prima ancora che tecnologico, perché troppo spesso rischia di prevalere l’aspetto sensazionalistico ed esibizionistico, a volte di tipo disneyano. Le domus di Palazzo Valentini o lo spettacolo di proiezioni nel Foro di Augusto e quello che vedremo a breve nel Foro si cesare, curati da Piero Angela e Paco Lanciano, hanno suscitato un enorme interesse, in particolare tra i cittadini romani, dimostrando chiaramente quanti spazi siano possibili per una comunicazione di qualità in grado di far conoscere anche monumenti finora assai poco noti, come appunto il Foro di Augusto, per molti solo un insieme di ruderi di difficile interpretazione. Il vero nodo culturale consiste nel superamento di una concezione elitaria, che considera i monumenti capaci di parlare da soli. Una concezione elitaria che spesso è sostenuta da certe vestali della purezza della cultura, sedicenti democratici e progressisti, che, al di là della retorica del ‘bene comune’, manifestano una visione proprietaria del patrimonio culturale e considerano i cittadini e i turisti fastidiosi, rumorosi, rozzi e indesiderati ospiti di musei e siti archeologici. Peraltro il turismo di massa, frettoloso e inconsapevole, rappresenta l’altra faccia della visione elitaria e contemplativa. Insomma dovremmo manifestare amore non solo per i siti e per gli oggetti, ma anche per le persone che visitano quei siti e osservano quegli oggetti. Forse è ancora necessario ribadire che i ruderi non sono proprietà privata degli archeologi e tutti devono essere messi nelle condizioni di conoscerli, capirli, amarli. Altrimenti non dobbiamo meravigliarci se nella recente classifica dei luoghi del cuore stilata dal Fai sulla base delle segnalazioni oltre un milione di cittadini, i siti archeologici, in un paese come l’Italia, rappresentano solo un misero 2,7%: gli italiani non sembrano amare l’archeologia! È colpa loro o nostra? Forse basterebbe applicare interamente la nostra bella Costituzione, che all’articolo 9, spesso richiamato solo parzialmente da alcuni, lega strettamente tutela e promozione dello sviluppo della cultura, cioè quello che oggi chiamiamo valorizzazione e affida questo compito all’intera Repubblica e non solo allo Stato, né tanto meno ad un solo ministero. La stessa preziosa e irrinunciabile azione di tutela, peraltro, non è qualcosa di asettico e di oggettivo, ma muta con il mutare della nostra idea di patrimonio culturale, con le nuove sensibilità e competenze. Il nostro patrimonio va certamente tutelato e conservato, ma questo dovere va attuato con la capacità dell’innovazione e il coraggio del cambiamento e non confondendo conservazione con conservatorismo. Riprendendo le parole di papa Francesco contro ogni forma di integralismo e tradizionalismo,  dovremmo saper “Tenere vivo il fuoco della tradizione ma non adorarne le ceneri

Per favorire la comprensione dei monumenti sono auspicabili anastilosi e anche interventi ricostruttivi, ovviamente scientificamente fondati. Un caso esemplare di una certa visione feticistica dei monumenti antichi è rappresentato dal clamore enorme e dalle immancabili polemiche suscitati dalla proposta Colosseo dal ministro Franceschini, di ripristinare l’arena - una proposta di puro buon senso che in un paese normale non avrebbe nulla di rivoluzionario. Una proposta condivisa dalla Commissione, nella convinzione che essa possa offrire un’ulteriore opportunità di comprensione e fruizione del monumenti, rendendo visitabili anche gli ambienti sotterranei (magari con sistemi di visita simili a quelli delle domus di Palazzo Valentini) ed ospitando iniziative culturali compatibili con la corretta conservazione del monumento. Così come si auspica il ripristino del collegamento tra il Colosseo e il Ludus Magnus, al momento in condizioni indecenti, del tutto incomprensibile e totalmente privo di senso per le migliaia di persone che vedono dall’altro quelle rovine: anche in questo caso sarebbe necessario un progetto innovativo, anche coinvolgendo privati, realizzando una grande piazza, frequentabile anche di sera, consentendo inoltre l’accesso ai sotterranei: in tal modo si potrebbe evitare il rischio di un degrado di questa zona per rendere la struttura frequentabile.

Una delle proposte della Commissione riguarda l’istituzione del Museo della città di Roma, di cui si discute fin dagli anni Ottanta del secolo scorso. Un Museo che non dovrebbe aggiungersi agli altri, numerosi, già presenti, non una galleria di oggetti, sia pur di pregio, ma un museo innovativo, ricco di idee più che di oggetti, capace di raccontare l’intera storia della città dalle origini fino ad oggi. Il Museo di Roma dovrebbe costituire il luogo nel quale tutta la conoscenza relativa alla storia della città potrebbe essere ricomposta in un racconto unitario e in una prospettiva di alta promozione culturale. Si pensi a quel modello rappresentato dal Museo della Crypta Balbi portato alla dimensione dell’intera città. Questo nuovo Museo dovrebbe essere frutto dell’integrazione del lavoro delle Soprintendenze statali e Capitolina con la collaborazione delle Università e degli Istituti stranieri. Potrebbe, anzi, rappresentare la sede di un esperimento di ‘policlinico dei beni culturali’. Dove, se non a Roma, sarebbe possibile sperimentare un modello così innovativo che unisce valori universali con valori locali? E dove, se non a Roma, si dovrebbe istituire una Scuola Nazionale del Patrimonio, che possa curare la formazione e il reclutamento dei futuri funzionari?

Lo stesso spirito di stretta collaborazione dovrebbe riguardare una maggiore pianificazione e coordinamento delle ricerche a partire dalla costruzione di una base di dati comune, facilmente consultabile e implementabile. Serve dunque un SIT, consultabile on line, ad accesso aperto, capace di gestire grandi masse di informazioni. La Soprintendenza di Roma possiede già uno strumento importante come il SITAR, che andrebbe ulteriormente sviluppato, con il contributo delle Università e degli Istituti stranieri che dispongono di proprie banche dati che sarebbe utile rendere interoperabili, riversando tutti i dati in un’unica Carta dei Beni Culturali di Roma, capace non solo di gestire enormi masse di dati, ma per un più corretto monitoraggio e per una valutazione degli interventi effettuati.

Serve dunque un progetto organico che sappia restituire questi luoghi ai cittadini, ad esempio, come propone la Commissione, attraverso il libero accesso al Foro romano e ai Fori imperiali. I fori in età romana erano innanzitutto piazze, luoghi di incontro e socializzazione: tornino ad essere piazze, con nuove pavimentazioni, in modo da percepire gli spazi e riutilizzarne in qualche modo le antiche funzione, apprezzando i volumi e le forme degli edifici.

Tra le altre tante proposte avanzate, che non posso qui richiamare, mi preme segnalarne due di particolare importanza: a) il recupero e il riuso di una serie di edifici e complessi di pregio, oggi in grave stato di abbandono o di degrado, come Villa Rivaldi, Tor de’ Conti, ex Pantanella-complesso di via dei Cerchi, Palazzo Tiberi, e altri ancora, limitando il più possibile la realizzazione di nuovi manufatti; b) la necessità di privilegiare la manutenzione ordinaria rispetto ai restauri, spesso ripetuti, costosi e a volte addirittura dannosi.

È necessario, soprattutto, stimolare la partecipazione attiva dei cittadini e dei visitatori, ascoltare le loro esigenze, i loro bisogni e le loro aspettative, cogliere il valore che essi stessi attribuiscono al loro patrimonio culturale, condividere le scelte, coinvolgere la cittadinanza, le associazioni, le fondazioni, i tour operator, in progetti di gestione, favorire esperienze di imprenditoria, e anche micro-imprenditoria, nei servizi e nelle attività economiche necessarie per rendere questi spazi vivi e vitali, per attrarre risorse e creare nuove opportunità di lavoro qualificato.

Ma c’è un obiettivo non meno prezioso: contribuire in un momento di crisi e di smarrimento al consolidamento delle identità locali, che si vanno perdendo e sempre più omologando, senza però cadere nella pericolosa trappola identitaria, ma sapendo coniugare identità e alterità. Solo, infatti, la conoscenza e la piena consapevolezza della complessità della storia stratificata possono essere capaci di stimolare le aperture e la curiosità verso ogni forma di diversità. Serve un impegno culturale per sconfiggere i totalitarismi identitari che trasformano l’identità da un elemento di auto-consapevolezza e di maturità in una sorta di ‘clava identitaria’ che concepisce i luoghi, fisici e culturali, come contenitori ermeticamente delimitati. L’archeologia e, nel loro insieme, il patrimonio culturale, possono e devono, cioè, contribuire alla valorizzazione dei patrimoni territoriali e all’arricchimento di quella che chiamiamo ‘memoria sociale’».

Per tutto questo servirebbe, forse, una nuova Legge per Roma, a oltre trent’anni dalla precedente.

Mi piace chiudere con le stesse parole della nostra relazione: “Quella dell’AACR è, infatti, una sfida che richiede il superamento di categorie interpretative desuete e la ricerca di strumenti culturali nuovi. Una sfida da affrontare guardando al mondo che sarà, non solo a quello che è stato”.


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