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Il Museo dell’Innocenza

Il Museo dell’Innocenza di Orhan Pamuk è un romanzo meraviglioso. È la bella, toccante, travolgente, storia d’amore di Kemal, giovane esponente dell’élite imprenditoriale turca, con studi negli Stati Uniti e aperture ‘occidentali’, per la giovane bellissima Füsun, sua lontana parente. Una storia d’amore tormentato, infelice e pure pieno di momenti di assoluta felicità, totalizzante, folle, ossessivo. Pamuk riesce a esprimere le migliaia di sfumature di questo amore, descrivendo minutamente sensazioni, sentimenti, dolori, gioie, espressioni, luoghi, dialoghi, sguardi. Oltre 570 pagine, mai noiose o banali, tutte dedicate alla descrizione di un amore.

È la storia di un amore. che però «non è una semplice storia d’amore, … è la storia di un mondo, o in altri termini, la storia di Istanbul.» La storia di una società in profonda trasformazione, contraddittoria, molto attratta dalla cultura occidentale e pure legata alla tradizione islamica, nonostante la rivoluzione culturale laica di Ataturk, con grandi sacche di povertà e di arretratezza, povero, una mentalità e modi di comportarsi che possono ricordare le regioni del Sud d’Italia degli anni 50-60, e una élite ricchissima, un paese politicamente instabile, con continui colpi di stato, coprifuoco, censure, eppure fortemente dinamico e in crescita. Personaggi, situazioni, atmosfere, avvenimenti e piccole vicende domestiche descritti meravigliosamente da Pamuk.

Ho letto questo libro – lo confesso  – innanzitutto per l’interesse per il museo nato con questo romanzo. Un museo nato da romanzo e con il romanzo. Il romanzo è scritto da Pamuk in prima persona, come se fosse lui stesso Kemal (nelle ultime pagine si usa il delizioso espediente dell’incontro tra Kemal e Orhan, al quale il primo chiede di scrivere il romanzo per raccontare la sua storia, mentre lui sta completando la raccolta di oggetti da esporre nel museo).

Il romanzo e il museo si integrano e si completano. Il romanzo nasce quasi come un catalogo che consenta ai visitatori di meglio capire il museo. E il museo altro non è che la casa della famiglia di Füsun, nel quale Kemal-Orhan vuole esporre gli oggetti che lui stesso ha raccolto, spesso rubandoli, tutti legati alla vita quotidiana, in grado di conservare la memoria di Füsun e della loro difficile storia di amore.

Oggetti raccolti in forma maniacale, quasi feticistica. Poi dopo aver visitato migliaia di musei, soprattutto tante case-museo, Kemal capisce che gli oggetti hanno uno straordinario potere di memoria e decide di dar vita a un museo: «una cosa mi era chiara: ero felice solo quando entravo in un museo e sognavo di poter narrare la mia storia attraverso gli oggetti che avevo raccolto». «Alla casa Rochox di Anversa mi fu chiaro ancora una volta che il passato penetra negli oggetti e li riempie con un’anima».

«Il signor Kemal, che alla sua morte aveva visitato 5723 musei in tutti il mondo, approfittava di ogni occasione per recarsi al Museo Bagatti Valsecchi di Milano: o meglio, per “viverlo”, come diceva lui, perché era “uno dei cinque musei più importanti della mia vita”. (Le sue ultime osservazioni che annotai sono: “I musei: 1. Sono fatti non per essere visitati, ma per essere sentiti e vissuti; 2. è la collezione stessa a determinare l’essenza, l’anima, di ciò che si percepisce visitandola; 3. senza collezione non si può parlare di museo, ma di un edificio per esposizioni”).»

Il più amato è proprio il bel museo Bagatti Valsecchi, «una dimora dell’Ottocento che due fratelli progettarono in stile rinascimentale e che nel corso del Novecento fu trasformata in casa-museo: Kemal ne era rimasto soggiogato perché la splendida collezione era costituita da banali (benché rinascimentali) oggetti di uso quotidiano».

L’ho letto (cosa che volevo fare da tempo) perché dovevo scrivere l’introduzione del libro ‘Racconti da museo’, curato da C. Dal Maso, e cercavo un’ispirazione. Poi, però, all’interesse ‘museologico’, ispirato in particolare dal decalogo di un museo che racconti storie quotidiane (2016), nel quale Pamuk invita a privilegiare le case piuttosto che i monumenti, le storie piuttosto che la Storia, le persone piuttosto che le nazioni, si è subito aggiunto il piacere della lettura di pagine intense, emozionanti, ricche di sensibilità.

Sorprendente il messaggio finale, per certi versi inaspettato a conclusione della lettura di una storia infelice, racchiuso nelle parole del protagonista rivolte ai lettori e ai visitatori del suo museo: «Tutti devono saperlo: ho avuto una vita felice».

 


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