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Il prossimo ministro dell’Università risolva il problema dei ricercatori universitari a tempo indeterminato

La legge di riforma dell'università del 2010, la cd. legge Gelmini, tra le varie novità introdotte, alcune anche positive, molte assai negative, ha eliminato la figura del ricercatore universitario a tempo indeterminato, divenuta così una 'categoria a esaurimento'. Al momento della legge si trattava di oltre 24.000 persone, entrate nell'università nel corso degli anni, con concorso, scritto e orale, e con valutazione dei titoli scientifici. L'idea insita in quella legge era di rivedere l'assetto della docenza, eliminando la figura del ricercatore universitario a vita: cosa positiva se ci fossero stati adeguati sistemi di progressione di carriera, ovviamente sulla base di una rigorosa valutazione della qualità scientifica. Un disastro se mancano, come sono mancate, le risorse.

I docenti, secondo quella legge, sono, pertanto, i professori di prima e seconda fascia (ordinari e associati), ai quali si sono aggiunti i ricercatori a tempo determinato (RTD). Questi ultimi a loro volta divisi in due categorie, quelli di tipo A, effettivamente a tempo determinato (durata del contratto di 3 anni, più al massimo altri 2) e quelli di tipo B che, invece, godono di un percorso privilegiato, perché, se durante il periodo svolto da ricercatore acquisiscono l'Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN) come professore di seconda fascia, hanno automaticamente la progressione di carriera e un posto a tempo indeterminato. Non entro qui nel merito della valutazione di queste nuove figure, perché mi preme sottolineare la gravità della condizione della categoria dei vecchi ricercatori a tempo indeterminato: e sottolineo vecchi, perché ormai hanno tutti più di 40 anni (l'età media è di 49 anni; gli ultimi concorsi risalgono infatti al 2010 e solo 1.400 circa sono quelli con meno di 40 anni). Molti di loro tengono da anni corsi universitari e molte università riescono a reggere l'offerta formativa solo grazie a loro, che, peraltro, non hanno nel contratto di lavoro alcun obbligo di docenza (a differenza delle nuove figure di ricercatore TD di tipo A e B).

A 8 anni dalla 'riforma Gelmini' sono ancora un esercito: esattamente 14.007 (dati MIUR; 13.325 nelle università statali, 682 nelle private). Praticamente ancora un terzo dell'intero corpo docente universitario (erano 58.885 nel 2010-11 e 54.235 nel 2016-17, con una perdita di 4.650 professori e ricercatori, il 7,9%, solo negli ultimi sette anni). Oltre 10.000 sono stati 'smaltiti': molti andati in pensione, altri nel frattempo hanno fatto carriera, soprattutto nelle Università del Nord. Se si controllasse, infatti, l'anagrafe di questi ricercatori si vedrebbe facilmente che sono numerosi soprattutto negli Atenei meridionali e in quelli in maggiore difficoltà economica, a causa dei drammatici tagli subiti al Fondo di Funzionamento Ordinario (FFO) dal 2008 in poi e della riduzione del turn over. Non dispongo del dato esatto, ma credo di non sbagliare nell'affermare che almeno la metà di questi 14.007 sono in possesso dell'ASN di seconda fascia, e molti di loro anche di quella di prima fascia. E poiché anche l'ASN è a termine e molti di loro l'hanno acquisita anni fa, ora si vedono costretti a ripresentarsi per riconquistarla: una inutile umiliazione per loro, e un gravoso lavoro per le commissioni. Una ASN che rischiano di tenere appesa al muro per molti anni ancora, perché le loro università non possono chiamare concorsi. Inizialmente erano stati previsti fondi ad hoc per i concorsi per questa categoria, ma si è avuta una sola tornata, poi nulla.

È un problema ignorato. È una categoria di docenti, moltissimi dei quali con un curriculum di assoluto prestigio e molti anni di docenza, pare non interessare a nessuno. Anni si fa si introdusse un contentino, che aveva il sapore della beffa: furono chiamati 'professori aggregati'! Ci sono norme, anzi, che li penalizzano, condannandoli a restare in un limbo senza prospettiva. Spesso può capitare che alcuni più giovani, a volte loro stessi allievi formati nei corsi che tengono da tempo immemorabile, vincano meritatamente un posto di ricercatore di tipo B e siano, quindi, destinati a scavalcare gli anziani ricercatori nel giro di qualche anno acquisendo un posto di professore. Perché, per assurdo, i ricercatori TI non possono nemmeno partecipare ai concorsi per ricercatore TD di tipo B (per i quali sta per partire un piano straordinario)!

Si tratta di una bomba a orologeria: se, infatti, i 14.007 decidessero di rinunciare alla didattica, cui non sono tenuti, moltissimi corsi universitari chiuderebbero.

Cosa fare allora? Una promozione ope legis? Assolutamente no. Ma ci si chiede: perché non equipararli almeno ai ricercatori di tipo B: in tal modo quelli in possesso della ASN (quindi con il superamento di soglie di qualità e con una valutazione nazionale) diventerebbero automaticamente professori di seconda fascia. In tal modo si darebbe dignità a questa categoria e, inoltre, si garantirebbe anche una maggiore sostenibilità dei corsi universitari, che necessitano di professori. Anche l'aspetto economico è assai relativo, perché gli stipendi di un ricercatore anziano non sono molto diversi da quelli di un professore di prima nomina, e comunque si potrebbero trovare soluzioni sostenibili per non creare problemi ai bilanci delle università.

Ovviamente gli improduttivi, coloro che non hanno i titoli per acquisire la ASN, loro sì giustamente, restino categoria a esaurimento. Ma non si provochi l'esaurimento (nervoso, psicologico, intellettuale) di chi merita.

Non è una questione corporativa, anche se è uno sport diffuso attaccare l'Università come sede di una casta di privilegiati. E non è un problema che possa essere scaricato solo sui singoli Atenei, soprattutto quelli più deboli del Sud, che non hanno gli strumenti per affrontarlo: del resto appare oggi, a distanza di anni, ancor più chiaro il disegno insito in quella legge di indebolire le università meridionali a tutto vantaggio delle più ricche università del Nord, anche attraverso tali misure. E forse una riflessione sui recenti risultati elettorali al Sud dovrebbe prendere in considerazione anche questi fenomeni. Servirebbe, dunque, una iniziativa politica, del nuovo Ministro. È questa solo una delle tante questioni del mondo universitario: ma è una questione che riguarda migliaia di persone impegnate nella ricerca e nella didattica; riguarda anche, indirettamente, migliaia di studenti che hanno ora docenti sfiduciati, delusi, a volte frustrati, pur continuando a svolgere il loro dovere. Riguarda, cioè, un pezzo del futuro di questo Paese.

 Pubblicato in https://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/il-prossimo-ministro-dell-universita-risolva-il-problema-dei-ricercatori-universitari-a-tempo-indeterminato_a_23416604/?utm_hp_ref=it-blog


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