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L’immagine negata

Ha qualcosa di assurdo entrare in un bell’edificio storico adibito a museo archeologico, ancora in allestimento, e trovare nelle sale con vetrine prive di reperti, cartelli posti in bella vista con il divieto di fotografare. Accade in Italia, alle soglie del terzo millennio. Un divieto sconcertante in un museo ancora vuoto, ma ugualmente incomprensibile nella stragrande maggioranza dei musei italiani. Una proibizione che ci allontana dall’Europa e dalla totalità dei paesi avanzati: chiunque abbia esperienza di musei, archivi, biblioteche all’estero sa bene quanto sia facile scattare una foto, riprodurre le tavole di un libro, acquisire documenti.

Il paradosso raggiunge livelli elevatissimi a Roma, dove nelle fornitissime biblioteche degli Istituti stranieri è possibile fotografare e acquisire liberamente immagini, diversamente da quanto accade nelle biblioteche statali italiane, che hanno affidato l’appalto esclusivo all’impresa Gap, la quale detiene il monopolio nazionale delle riproduzioni.

Già nel 1962 un gior­nale come Paese Sera aveva denunciato l’assurdità di impedire le foto nei musei: ebbene, dopo cinquant’anni, con la rivoluzione digitale in atto, nell’età del web e dell’accesso libero, il tema è ancora profondamente attuale. In particolare, la diffusione della fotografia digitale, che ha prodotto una democratizzazione del mezzo fotografico (non senza esagerazioni), consente di riprodurre e rendere disponibili in rete moltissime immagini di reperti archeologici, opere d’arte, libri, manoscritti, facilitandone la conoscenza, la condivisione e la consultazione, non solo per gli studiosi di tutto il mondo, ma anche per i normali cittadini e i turisti. Sem­plice sotto il profilo tecnico e con costi quasi nulli, la fotografia digitale consente di conservare le testimonianze scritte, materiali, artistiche del pas­sato, facilitandone lo studio e la fruizione.

Un docu­men­tato arti­colo di Andrea Bru­gnoli e Stefano Gardini (Archivi & Com­pu­ter. Auto­ma­zione e Beni Cul­tu­rali, 1, 2013) ha analizzato in maniera approfondita la situazione normativa e le straordinarie potenzialità della fotografia digitale in campo archi­vi­stico. Gli stessi autori hanno poi pub­bli­cato un inci­sivo appello sul sito Roars (http:// www .roars .it/ o n l i n e / r i p r o d u z i o n e  d i  b e n i  c u l t u r a l i  a p p e l l o  a l  m i n i s t r o  b r ay/).

Recen­te­mente, l’Associazione italiana biblio­te­che ha pro­po­sto un emendamento al «Decreto del fare» e alcune società scientifiche di storia, archeologia e storia dell’arte hanno pubblicato un appello al ministro Bray per l’eliminazione di tale divieto almeno per motivi di stu­dio (http:// www .rm .unina .it/ i n d e x . p h p ? a c t i o n = v i e w n e w s & a m p ; n e w s = 1 3 7 9 0 8 2 134), proponendo modifiche al Codice dei beni culturali, al cui aggiornamento sta lavorando una commissione presieduta da Salvatore Settis. È anche nato uno specifico gruppo  Foto nei musei — su Facebook, che si batte per la liberalizzazione e sta censendo i musei nei quali è autorizzato l’uso della fotografia: https:// www .face book .com/ g r o u p s / 2 0 3 4 3 2 3 8 6 5 1 8 4 14/.

Insomma, c’è un gran fermento. Manca solo un intervento legislativo che garantisca non solo la libera riproducibilità dei beni culturali per finalità di ricerca e documentazione, ma anche per ogni uso legittimo, garantendolo a tutti, con ogni cautela per reali esigenze di tutela e conservazione (ad esempio, niente flash) e per eventuali diritti d’autore.

Fu in particolare la legge Ronchey, trasferita poi nel Codice dei beni culturali, a introdurre il divieto, lasciando agli istituti ministeriali il diritto esclu­sivo della riproduzione dei beni culturali. Avrebbe dovuto contribuire a garan­tire risorse dalla vendita dei diritti. I servizi di riproduzione vennero poi affidati a società esterne e si introdussero tariffe, anche nel caso in cui la foto fosse realizzata dallo stesso ricercatore.

È lecito dubitare che i bilanci ministeriali ne abbiano tratto benefici significativi; se anche così fosse, l’Italia ha introdotto un divieto assurdo, per la ricerca scientifica e non solo. Una interdizione che limita l’accesso alla conoscenza e alla fruizione, impedendo un diritto garantito dalla Costituzione e anche dallo stesso Codice dei beni culturali e del paesaggio, che prevede esplicitamente la gratuità delle riproduzioni per finalità culturali, con eventuale rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione per il rilascio della copia.

Lo Stato non dovrebbe lucrare sullo «sfruttamento» dei beni culturali; dovrebbe, semmai, favorire lo sviluppo economico di un territorio attraverso la valorizzazione del suo patrimonio. Anche sotto il profilo strettamente economico, questo divieto è un fallimento: far circolare immagini dei nostri beni culturali consente la loro conoscenza, li promuove, sollecita i turisti a visitarli.

Si parla spesso di innova­zione, anche nel campo dei beni culturali, e spesso si confonde l’innovazione con l’impiego di tecnologie innovative. L’innovazione è innanzitutto culturale, metodologica, politica. E non sempre comporta dei costi. Ecco, allora, un’innovazione semplice e rivoluzionaria: eliminare finalmente i cartelli «vietato fotografare» nei musei, nelle biblioteche, nei parchi archeologici. Garantire il libero accesso ai dati e la loro libera circolazione. Sostenere le politiche di open accessopen data, anche perché – bisogna ricordarlo – le ricerche sono condotte, in larga parte, con fondi pubblici, da strutture pubbliche, da ricercatori pubblici. Anche l’Unione Europea invita i paesi membri in tal senso.

In conclusione, un’autodenucia: chi scrive contravviene puntualmente a questa inconcepibile restrizione (e non è il solo); un piccolo gesto di disobbedienza civile. Fotografa regolarmente (le macchine digitali lo consentono facilmente) e spesso pubblica le immagini sul web, anche per segnalare piccoli musei o monumenti ignoti.

Il ministro Massimo Bray è persona colta e sensibile, ha grande esperienza in campo editoriale, sta dimostrando capacità di apertura in vari ambiti della sua attività: liberi l’Italia da questa folle proibizione e ci restitui­sca a una condizione di normalità e legalità. Sarebbe un atto di civiltà, di cultura, di democrazia, di libertà.

© 2014 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE


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