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La riforma delle Soprintendenze c.d. olistiche: storia di un'idea

Lezione tenuta il 9 marzo 2018 al Master 'Le culture del Patrimonio, Università Roma 3.

Nel gennaio del 2016 con il DM 23 gennaio 2016, in applicazione della Legge di Stabilità 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, c. 327, si è realizzato il definitivo passaggio in Italia dal modello tradizionale della Soprintendenza settoriale a quello della Soprintendenza unica territoriale. Si tratta di un cambiamento epocale. Le soprintendenze settoriali, disciplinari, hanno una lunga storia, che risale almeno al 1974, quando furono istituite nel neonato Stato italiano per iniziativa del ministro della PI Ruggero Bonghi e del primo direttore generale alle AA.BB.AA. Giuseppe Fiorelli.Ci sono stati vari cambiamenti nel corso di questi 150 anni, ma sostanzialmente le soprintendenze settoriali hanno avuto competenze rispettivamente, pur con denominazioni nel corso del tempo diverse, nei Beni Architettonici, Beni Artistici, Beni Archeologici.Nel gennaio 2016 si è portato a compimento, sia pure con un percorso accidentato e poco lineare, il disegno iniziato con la prima parte della riforma Franceschini dell'agosto 2014 , che aveva previsto, tra l'altro, l'accorpamento delle Soprintendenze ai beni artistici con quelle ai beni architettonici e paesaggistici. Sono nate quindi nel 2016 le Soprintendenze 'Archeologia, Belle Arti e Paesaggio' (una denominazione che trovo per più versi inadeguata e insoddisfacente, anche perché conserva, per di più parzialmente e con il ricorso a definizioni d'antan, un retaggio disciplinare; personalmente avrei preferito una denominazione più secca e omnicomprensiva: 'Soprintendenza ai Beni culturali e paesaggistici' o, meglio, 'Soprintendenza al Patrimonio Culturale', in modo da aderire, anche nel nome, a una visione unitaria, organica, olistica del patrimonio). Le trentanove Soprintendenze uniche territoriali (da alcuni chiamate, alquanto dispregiativamente, 'miste'), oltre alle due speciali di Roma e Pompei (poi trasformata in Parco archeologico), hanno la competenza unitaria della conoscenza, ricerca e tutela del patrimonio culturale in specifici ambiti territoriali, delimitati e omogenei, e si articolano al loro interno in vari settori: archeologia, arte, architettura, paesaggio, beni immateriali, educazione e ricerca, ognuno con un proprio responsabile.
La Soprintendenza unica: una battaglia dagli anni Settanta a oggiAndrea Carandini, nella seconda edizione del suo Archeologia e cultura materiale, commentando a quattro anni dall'avvio delle pubblicazioni della rivista Archeologia Medievale, le straordinarie novità legate alla 'nuova' disciplina in Italia, sottolineava come fossero "le archeologie di più recente fondazione a soffrire in maggior misura dell'attuale assetto scompaginato dell'amministrazione dei "beni culturali" (se non altro per il fatto di essere ospiti non invitati, per i quali bisogna aggiungere un posto in più a tavola). Secondo le disposizioni vigenti, qualora si scavi in un edifico post-classico, lo scavo spetta alla Soprintendenza alle 'antichità', le strutture rinvenute a quella ai 'monumenti' e gli oggetti mobili raccolti a quella alle 'gallerie'. È una follia!" . Riferendosi poi all'assetto che proprio in quegli anni si andava dando la Sicilia, nel quadro della sua autonomia, Carandini, allora responsabile della Commissione Cultura del PCI, che quella riforma siciliana aveva contribuito a elaborare, affermava: "Questa è una delle ragioni per cui molti invidiano la legge che si è data la Regione Sicilia che prevede un'unica struttura territoriale, articolata in più settori di lavoro .... In questo caso l'archeologia non è che una parte di uno stesso organismo; quindi il taglio diacronico di questo settore (dalla preistoria all'industrialismo) appare perfettamente funzionale" . Insomma una netta presa di posizione a favore della Soprintendenza unica, espressa già alla fine degli anni Settanta, quando la sinistra riusciva a esprimere un maggiore coraggio innovativo e una più spiccata creatività culturale, prima di chiudersi, purtroppo, nella mera difesa di parole d'ordine del passato. Negli anni Settanta, infatti, la battaglia per una visione globale del patrimonio culturale, per un approccio fortemente interdisciplinare e per la Soprintendenza unica, era propria del mondo della cultura di sinistra e aveva trovato in Dialoghi di Archeologia il luogo di maggiore elaborazione e di più decisa proposta , quando denunciava "il perpetuarsi della frammentazione delle Soprintendenze invece di prevedere una Soprintendenza territoriale unica ..." . Tranne rare eccezioni, il tema è rimasto successivamente sotto silenzio. Poche sono state le voci levatesi dal coro per difendere un cambiamento che in realtà ha radici antiche, in particolare nelle istanze dell'archeologia medievale. Basterebbe rileggere la presentazione nei primi numeri di Archeologia Medievale, che ha da poco festeggiato i suoi primi quarant'anni, per ritrovare tutte le ragioni scientifiche, metodologiche, culturali per sostenere questo progetto. Nell'editoriale del n. 1, 1974, illustrando i temi e le finalità della nuova rivista, si precisa che al centro dell'interesse c'è "la storia dell'insediamento, la storia dei rapporti tecnico-economici con le risorse ambientali e quindi la storia del paesaggio e del territorio: … È pensando a questi temi che abbiamo voluto che figurassero nel sottotitolo anche le parole Insediamento e Territorio, che sintetizzano una serie di temi finora trascurati". Non si parla di tutela e valorizzazione ma l'insistenza sull'aspetto territoriale e paesaggistico chiarisce bene la visione organica, olistica appunto. Nell'editoriale del n. 2, 1975, si chiariscono alcuni temi e si fa un cenno alle questioni della tutela, privilegiando un'organizzazione decentrata con un ruolo delle Regioni (che non a caso proprio in quegli anni prendevano forma) e una forte attenzione alla partecipazione dal basso: "5. Questa prospettiva non solo sembra richiedere una nuova articolazione della ricerca, in cui la storia locale (nel senso più comprensivo e soprattutto inglese di questo termine) diventa la condizione sine qua non della riappropriazione e gestione del territorio storico-culturale, ma richiede anche una nuova normativa che oggi spetta soprattutto alla Regione determinare in collaborazione con le Sovrintendenze. Una nuova normativa finalmente decentrata e democratica che dia fiducia e insieme responsabilizzi (anche scientificamente) la comunità locale. Anche in questo campo, che ci auguriamo possa essere approfondito non meno dei punti che concernono i tipi di conoscenza forniti dalla storia della cultura materiale, ci limitiamo a indicare gli spunti e le sollecitazioni che provengono dalla esperienza regionale soprattutto emiliana (A. EMILIANI, Una politica dei beni culturali, Torino 1975) e nello stesso tempo invitiamo a intervenire su queste pagine, oltre gli specialisti, anche gli operatori culturali, politici e sindacali, le cui esperienze locali si inseriscano entro le prospettive ora delineate".Riccardo Francovich in tutta la sua vita di ricercatore, docente e personalità impegnata nelle battaglie civili, ha sempre sostenuto tali ragioni , fino alla sua più recente, ampia, innovativa, riflessione sulle 'politiche per i beni culturali fra conservazione e innovazione' , poco prima della sua tragica e prematura scomparsa. Vent'anni fa la posizione più netta, e a lungo rimasta quasi del tutto isolata, a favore della Soprintendenza unica veniva da Carlo Pavolini, archeologo classico, con una lunga esperienza in Soprintendenza prima di approdare all'Università. Le motivazioni indicate vent'anni fa da Pavolini conservano intatte la loro validità e attualità, e anzi si sono andate arricchendo da un ulteriore affermarsi dell'approccio contestuale e globale nell'analisi dei territori, delle esperienze dei Piani Paesaggistici, del cambio di prospettiva nelle politiche dei beni culturali sempre più attente alle esigenze dei territori e delle comunità locali. Riprendiamo alcune delle ragioni sostenute in quell'articolo apparso nella rivista Ostraka. "In molti casi (forse la maggior parte) - sottolineava Pavolini -, strategie di tutela divergenti, che non tengono alcun conto le une delle altre, per un riflesso di chiusura disciplinare, per gelosie o calcoli d'ufficio, o perché, semplicemente, non ci si pone il problema: con la conseguenza che interventi isolati, magari utili alla salvaguardia di una singola parte del monumento, possono risultare nocivi ad altri settori di esso, o possono rendere inutili operazioni diverse programmate da altri uffici periferici dello stesso Ministero, o, infine, esserne vanificati" . Altra voce autorevole è stata ovviamente quella di Daniele Manacorda. Molti sono gli scritti e gli interventi che si potrebbero richiamare a tale proposito. Mi limito alla voce 'Olistico' del suo libro del 2014 L'Italia agli Italiani, che immagino conosciate a memoria. Il progetto della Soprintendenza unica, vero e proprio oggetto di 'una rimozione collettiva', dopo l'articolo di Pavolini veniva ripreso e con forza rilanciato da Daniele Manacorda nel quadro di una riflessione del ruolo dell'Università nel sistema della tutela, di cui metteva in evidenza tutti i limiti in quanto "'coacervo di clamorosi anacronismi, fattore di impaccio e quindi, indirettamente, di danno per la reale salvaguardia dei beni culturali', mentre è tutta la cultura del Novecento che ci insegna che il territorio da tutelare è per definizione unitario", per cui riteneva che "sul tema della Soprintendenza unica si misura davvero la capacità di uno Stato (e di un Parlamento) di esprimere cultura nella organizzazione delle forme che esso dà alla sua amministrazione"  . Una capacità attesa per vent'anni.Tra le voci più forti e autorevoli anche quella di un altro archeologo, Gian Pietro Brogiolo, che in tante occasioni ha espresso una netta adesione a un approccio contestuale e una decisa condanna di ogni forma di frammentazione, forte della sua esperienza sia nelle soprintendenze, sia nella professione, sia infine come docente universitario. In un bellissimo saggio di vent'anni fa, affrontando il tema del rapporto tra archeologia e istituzioni ed esprimendo una posizione contraria al centralismo e allo statalismo imperanti, sulla base delle straordinarie acquisizioni che in quegli anni si andavano compiendo nel campo dell'archeologia stratigrafica e in particolare nell'archeologia urbana, dopo un'analisi dei vari attori (tecnici, professionisti, precari, volontari), proponeva quattro principi, ancora oggi validi, per porre rimedio al "fallimento della politica dei Beni Culturali", rifacendosi anche a altre esperienze europee: "a) unitarietà di competenze e compenetrazione tra tutela e programmazione urbanistica, b) liberalizzazione della ricerca, c) collegamento istituzionale tra tutela e ricerca, d) decentramento" . Principi ancora oggi da (ri)proporre e obiettivi ancora da raggiungere. Secondo Brogiolo, pertanto, la recente riforma rappresenta "solo un primo passo per tentare un difficile recupero dei significati e dei valori dei beni culturali in una società del terzo millennio che sempre più li rifiuta" .Già prima dell'introduzione delle soprintendenze uniche nel 2016, in coincidenza con la prima grande riforma effettuata da Franceschini nel 2014 (che aveva accorpato - lo ricordo - soprintendenze architettiche e artistiche lasciando da parte quelle archeologiche), si era sviluppato un dibattito acceso sulla 'questione olistica', non senza esagerazioni polemiche e vere e proprie campagne diffamatorie nei confronti dei sostenitori delle riforme, che peraltro non si sono ancora spente.Ricordo solo, anche per il tono pacato e civile del confronto, il dibattito sviluppatosi sul sito web Patrimonio SOS tra Piero Guzzo da una parte e Manacorda e chi vi parla dall'altra.In due interventi del 16 marzo e del 22 marzo del 2014 (dunque più o meno a un mese dall'avvio dell'esperienza di Franceschini come ministro, 22 febbraio 2014, e parecchi mesi prima della riforma che è dell'agosto 2014 con il DPCM 171), dal titolo rispettivamente 'A proposito della visione olistica della cultura' e 'Colloquio con Giuliano Volpe e Daniele Manacorda', quest'ultimo in risposta ai nostri (tempestivi) interventi del 16 e del 17 marzo [questo fatto andrebbe ricordato a chi dice che la riforma non fu accompagnata dal confronto, solo perché allora, come ancora oggi, da quegli ambienti non veniva alcuna proposta alternativa che non fosse la conservazione dell'esistente], Guzzo, che è stato un bravo soprintendente della Puglia e poi di Pompei, contrapponeva una serie di argomenti che si possono così riassumere:1. Sulla visione teorica si potrebbe concordare2. In pratica le cose funzionano diversamente 3. In Sicilia la soprintendenza unica non ha funzionato4. Un solo soprintendente è più soggetto alle pressioni politiche: "concentrando il potere in un numero minore di responsabili (attualmente, solo nei Direttori Regionali, oltre ai Soprintendenti Speciali; nei soli Soprintendenti provinciali in Sicilia) ben più agevoli sono le comunicazioni, e le pressioni, con chi, e da parte di chi, ha il concreto potere di decidere del tuo destino".5. Il soprintendente essendo tecnico di un settore finisce per disinteressarsi degli altri settori "E, in questo, non si dimentica che a rappresentare l'organo e guidarne destini ed operatività è un rappresentante di uno dei saperi compresi nell'organo stesso. Ciò comporta automaticamente il declassamento di valore di tutti gli altri saperi."6. Non c'è una formazione per tecnici 'olistici'7. Nelle Direzioni Regionali (a parere di Guzzo premessa delle soprintendenze olistiche) ha prevalso "l'impronta professionale specializzata che ha contraddistinto ognuno dei Direttori Regionali"; Ad esempio: "Lo scavo non farà mai parte del bagaglio tecnico di uno storico dell'arte"8. Le soprintendenze settoriali hanno garantito la tutela: "se il patrimonio è ancora conservato e, in parte, reso fruibile è conseguenza delle attività di questi uffici"9. Ai tecnici spetta solo la tutela alla società competono le scelte generali: "ad altri, da definire non necessariamente in esclusione ma anche con il concorso dei primi, quella di argomentare modelli e ricostruzioni ed interpretazioni olistici"; "Starà, quindi, ai tecnici istruire al meglio i provvedimenti di tutela: ma ai rappresentanti della società renderli efficaci"Sono critiche che, come sempre, è opportuno tenere in considerazione. E alle quali è necessario contrapporre argomenti solidi e aggiustamenti agli errori eventualmente compiuti. Cominciamo dall'argomento principe: la Sicilia
1. I critici della Soprintendenza unica usano sempre, per la verità in maniera assai strumentale, il caso siciliano. In realtà la questione andrebbe inquadrata nel contesto complessivo dell'autonomia attribuita alla Sicilia nel campo dei beni culturali (fin dal 1946), con le degenerazioni che una malintesa idea di autonomia ha provocato nel corso degli anni. Dopo aver precocemente adottato una legislazione e un'organizzazione - a mio parere - fortemente innovative e all'avanguardia, in grado di superare la frammentazione disciplinare delle soprintendenze con il modello della soprintendenza unica al patrimonio culturale e ambientale e attribuendo autonomia ai principali musei e parchi archeologici, la Sicilia ha poi dilapidato questa carica innovatrice a causa di un'eccessiva ingerenza della politica (per cui a ogni cambio di assessore - 5 negli ultimi tre anni! - fa seguito una girandola di dirigenti), per effetto di una gestione fortemente clientelare, con centinaia di dirigenti reclutati o promossi non sulla base di competenze tecnico-scientifiche, con una deleteria legge sulla dirigenza unica, oltre a enormi sprechi e a un'anacronistica idea di autonomia e 'identità siciliana' (la denominazione attuale è 'Assessorato regionale dei beni culturali e dell'identità siciliana'), che rischia portare sempre più l'isola, con il suo straordinario patrimonio culturale, a forme di separazione e marginalità . Forse bisognerebbe ripensare l'autonomia assegnata alla Sicilia nel 1975, pochi mesi dopo l'istituzione del Ministero dei Beni Culturali. L'articolo 9 parla di Repubblica e di Nazione e non sembra escludere la Sicilia! Mariarita Sgarlata, archeologa e assessore ai BC per un breve periodo nelle giunte Crocetta ha raccontato la sua esperienza amministrativa in un bel libro, dal titolo parlante. Esprime un giudizio articolato sull'esperienza delle soprintendenze uniche, sottolineando che "in Sicilia dove l'invenzione delle soprintendenze provinciali, interdisciplinari e generaliste, ha minato il rapporto tra specifica competenza tecnica e responsabilità gerarchica su cui si regge da sempre il sistema statale. Passando attraverso episodiche stagioni di riforme, lo Stato ha sempre rispettato il regime di competenze tecnico-scientifiche che rendono più efficace e puntuale l'azione amministrativa sul patrimonio culturale e naturalistico. Non è accaduto lo stesso nell'isola, dove un ruolo fondamentale per il deterioramento progressivo del sistema è da ricondurre alla Legge Regionale 10 del 2000 che ha introdotto nuove norme sulla dirigenza regionale e ha abolito i ruoli tecnici. Ciò ha aperto la strada al fenomeno della trasmigrazione, da altri settori dell'amministrazione, di professionalità lontane dai beni culturali che spesso si trovano oggi a essere responsabili di sezioni tecnico-scientifiche che nulla hanno a che vedere con la loro formazione. La Legge 10 del 2000, che ha azzerato il ruolo tecnico, ha quindi azzerato anche merito e competenze".
Molte voci di archeologi siciliani, Soprintendenti (tra gli altri Caterina Greco, Francesca Spatafora, Sebastiano Tusa), si sono recentemente levate a difesa della Soprintendenza unica. In particolare Tusa, soprintendente del Mare (tipico caso di soprintendenza olistica) ribandendo la necessità di adeguare il sistema della tutela alle istanze di globalità, contestualità, interdisciplinarità, ha affermato: "è con soddisfazione, inoltre, che constato che quanto fu fatto da noi in Sicilia negli anni '70 del secolo scorso con la rivoluzionaria riforma di settore che istituì già allora la Soprintendenza unica multidisciplinare, riceve, finalmente un riconoscimento nazionale. In Sicilia, tra luci e ombre dovute spesso a una cattiva amministrazione più attenta al clientelismo che alla professionalità (ma questo, ahinoi è un male nazionale), il bilancio sulla gestione della Soprintendenza unica provinciale è senza dubbio positivo. Affrontare le tematiche del territorio con il lavoro comune, all'interno dello stesso istituto, di professionisti di più discipline è stato esaltante ed efficace" .Insomma i problemi siciliani non dipendono dall'adozione della soprintendenza unica e credo che sarebbero stati identici nel caso in cui fossero rimaste le soprintendenze settoriali.
2. Anche il secondo argomento mi sembra poco fondato, anche perché la riforma Franceschini ha introdotto la Commissione regionale, che è coordinata dal segretario regionale e raccoglie tutti i soprintendenti e il direttore del Polo: è la commissione che decide vincoli e altre iniziative; un soprintendente quindi non opera da solo ma in coordinamento con i suoi colleghi: questa è una garanzia per la tutela del patrimonio e anche per gli eccessi di arbitrio di un singolo soprintendente, che nella prospettiva di Guzzo pare equiparato ad un prefetto.
3. Il terzo argomento pare esplicitare una sfiducia verso i suoi colleghi soprintendenti, per cui un architetto privilegerebbe l'architettura a scapito dell'archeologia o dell'arte. È un rischio comunque fondato, esito di una visione settoriale della tutela che ha una storia di 150 anni e che chiama in causa anche la formazione universitaria. C'è anche chi ha sostenuto che le soprintendenze uniche sarebbero state dirette solo da architetti che - a detta dei critici, non senza un po' di corporativismo - non sarebbero in grado di comprendere la 'specificità' del bene archeologico. È un argomento debole e pretestuoso: la soprintendenza archeologica di Roma è al momento diretta da un architetto, e non risulta che la tutela del patrimonio archeologico abbia nel frattempo conosciuto disastri. Per smentire questa 'preoccupazione' basterebbe, inoltre, ricordare che la nuova Direzione Generale unica ABAP (Archeologia Belle Arti Paesaggio) è stata affidata a una storica dell'arte (Caterina Bon Valsassina). Al vertice delle nuove soprintendenze in realtà sono stati posti archeologi (anche in molte grandi città capoluoghi regionali, come Bari, Bologna, Firenze, Genova, oltre che in territori archeologicamente rilevanti) al pari di architetti e storici dell'arte. Il compito dei nuovi soprintendenti sarà avvalersi di tutte le competenze e coordinarle in una tutela unitaria del territorio. Il problema reale, semmai, riguarda la formazione e l'aggiornamento dei soprintendenti chiamati a svolgere queste nuove funzioni. Inoltre bisognerebbe far funzionare effettivamente l'organizzazione delle soprintendenze uniche in sezioni, ognuna con un suo responsabile, al quale si dovrebbe attribuire un potere reale. Insomma passare da un potere monarchico-prefettizio a una gestione più collegiale. Ciò che colpisce è che queste obiezioni rimaste siano rimaste inalterate nel tempo, se già vent'anni fa a Pavolini  i critici di allora facevano notare che "la natura umana è quella che è, e che, ad esempio, un architetto chiamato a dirigere una Soprintendenza interdisciplinare finirebbe fatalmente per privilegiare i propri interessi scientifici e professionali a scapito dei beni di altra natura". Cosa c'è di così 'pericoloso' per gli archeologi nel lavorare fianco a fianco con architetti, storici dell'arte, demoetnoantropologi? Anzi il vero tema è: servirebbero molte altre competenze specialistiche in tali organismi unici: geologi, bioarcheologi, archeometristi, informatici, ingegneri strutturisti, economisti della cultura, esperti di comunicazione, etc. Specialisti che nessuna Soprintendenza settoriale potrebbe mai permettersi. Semmai è opportuno sollecitare l'espletamento a breve di un nuovo concorso per soprintendenti, reclutando dirigenti che sappiano svolgere il nuovo ruolo, che richiede una capacità di visione d'insieme e di organizzazione del lavoro integrato tra i vari specialisti presenti nelle soprintendenze. Una funzione che gli attuali soprintendenti fanno fatica a svolgere e che stanno imparando a proprie spese, anche perché non formati in tal senso. Si tratta di un ruolo simile a quello di un direttore di dipartimento o rettore di una università o di un direttore sanitario di un ospedale: un docente, un ricercatore, un medico che quando assume questa nuova qualifica deve saper mettere in secondo piano il proprio specialismo settoriale per svolgere una difficile funzione di coordinamento, progettazione e gestione. Sarebbe questa una nuova sfida anche per le Università, soprattutto per il terzo livello della formazione (Specializzazione, Dottorato, Master).Un problema concreto, che ho potuto verificare personalmente, consiste nella scarsissima capacità di lavorare insieme, di lavorare in equipe, anche se qualche piccolo progressi si intravede e ricevo sempre più spesso informazioni sull'apprezzamento, soprattutto da parte dei funzionari più giovani, circa questa opportunità di lavoro multidisciplinare. Questioni concrete riguardano ancora il funzionamento dei magazzini, i depositi dei materiali di scavo, degli archivi, delle biblioteche, dei laboratori: ma sono questioni pratiche risolvibilissime se solo ci fosse più capacità di collaborazione e una minore tendenza a erigere muri e a stendere filo spinato intorno al proprio territorio o al proprio museo, figli di una concezione proprietaria del patrimonio che è all'origine di tanti guasti.
4. È vero che le soprintendenze hanno garantito la tutela, è innegabile, e abbiamo tutti gratitudine e rispetto per il lavoro svolto. Ma dovremmo intenderci sul tipo di tutela oggi necessaria.Nel corso degli ultimi vent'anni le denominazioni delle Soprintendenze sono cambiate, ma non sono cambiati i problemi, le sovrapposizioni di competenze, gli sgarbi tra Soprintendenze 'sorelle', i danni al patrimonio. E anche se una serie di disposizioni ministeriali ha via via attribuito alle Soprintendenze archeologiche le competenze relative allo scavo, prescindendo dalle fasi storiche, non è mai stato del tutto superato quanto previsto dal Regio Decreto 363 del 1913, cioè che (art. 83) "qualora lo scavo o la scoperta rifletta cose d'arte medievale o moderna, le facoltà attribuite al sovrintendente per i musei e gli scavi d'antichità saranno esercitate dal sovrintendente per i musei e gli oggetti d'arte medievale e moderna o dal sovrintendente per i monumenti". Un macigno che ha prodotto danni nella frammentazione dei contesti, il cui peso si è avvertito fino a oggi, con risvolti a volte farseschi. Quanti esempi potrebbe richiamare ognuno di noi per sottolineare l'incongruenza di una tale separazione, che crea confusioni e conflitti all'interno del sistema stesso e soprattutto in rapporto con la società, con incomprensioni, contenziosi e fastidiosi appesantimenti burocratici a carico di altri enti pubblici e privati e dei cittadini? Ricordo il caso di un complesso paleocristiano composto da una chiesa, un atrio e un monumentale battistero in una città pugliese, nella quale ho avuto la possibilità di condurre scavi archeologici. Le diverse parti di quel complesso conobbero destini diversi nel corso del Medioevo: la chiesa e l'atrio, abbandonati, finirono per essere sepolti, mentre il battistero fu riutilizzato in età moderna sotto forma di frantoio, cosa che ne ha garantito la conservazione in elevato fino a oggi. Di conseguenza una parte dello stesso complesso, originariamente pensato, costruito e vissuto come un organismo unico è finito spezzettato nelle competenze di due Soprintendenze, quella archeologica, preposta a occuparsi della parte interrata, quella architettonica a curare il restauro del battistero, con scavi archeologici condotti da due diverse équipe per conto delle due Soprintendenze 'sorelle'. Un collega mi ha raccontato l'episodio paradossale vissuto alcuni anni fa, relativo alla richiesta di una Soprintendenza ai Beni Artistici di estrapolare i reperti di età moderna separandoli da quelli di età antica e medievale, perché considerati di sua competenza. Si pretendeva, insomma, di frammentare i contesti stratigrafici in nome di una visione burocratica delle competenze.
5. La visione olistica tende a rendere unitario ciò che è frammentario, a superare divisioni, a integrare le specializzazioni, a superare l'autoreferenzialità, a non cadere nella trappola del tecnicismo, a governare la complessità . "Ma attenti, - è l'invito di Manacorda - così come nel Rinascimento, era un approccio olistico alla cultura, poi di mezzo c'è stata la modernità. Non possiamo pensare di tornare all'800, noi dobbiamo trasferire la rivoluzione, la specializzazione disciplinare di cui non potremmo mai fare a meno nel XXI secolo, ricomponendo a livello più alto i saperi attraverso le specializzazioni, e impedendo che un mondo dove ciascuno sa sempre di più su sempre di meno dia il potere di governare il mondo a tecnocrazie. È questa la sfida che noi abbiamo di fronte" .

7. Infine, parlare delle DR come organismi olistici significa non intenderci sul concetto e sulla prassi della tutela olistica, perché le DR erano un appesantimento burocratico che peraltro creava una confusione di funzioni e di rapporti gerarchici: le soprintendenze settoriali infatti dovevano dar conto alla DR e al tempo stesso alla rispettiva DG settoriale.
Non sono quindi da sottovalutare i tanti problemi (indicati da più parti ) provocati da questo nuovo scossone organizzativo, dopo i tanti verificatisi negli ultimi anni , abbattutosi su un organismo ormai debilitato, stanco, con personale molto invecchiato (l'età media è ormai pericolosamente vicina a 60 anni), demotivato e privo di mezzi e strumenti operativi, con una cronica scarsezza di personale (in parte a breve compensata dal concorso per 500 posti di funzionari tecnico-scientifici, poi diventati 1000) e finanziamenti (che pure stanno ricominciando a crescere). I tempi e i modi di attuazione di questa nuova fase rappresentano un'indubbia difficoltà: si tratta di un'iniziativa impropriamente sviluppatasi in relazione dalla Legge di Stabilità, in tempi troppo stretti, senza adeguate forme di coinvolgimento e confronto, che rischia di creare non pochi disguidi e confusioni. Ed è sui problemi tecnici che si è concentrata la critica, che, però, poi ha riguardato anche l'impianto culturale. È su quest'ultimo che qui vorrei concentrarmi, ritenendo che gli aspetti tecnici e logistici, pur gravi, siano risolvibili, se solo li si vorrà risolvere. Anch'io non nascondo, infatti, alcune perplessità. Ritengo che sarebbe stato preferibile realizzare questa riforma in un unico momento, con il DPCM dell'agosto 2014. In quell'occasione avevo proposto l'istituzione di Soprintendenze/Direzioni uniche regionali, articolate all'interno in settori/dipartimenti specialistici (come quelli appena introdotti), comprendendo anche il polo museale regionale, e distribuite territorialmente in centri operativi unici. Insomma, mentre tutti chiedevano l'eliminazione delle (da molti odiate) Direzioni Regionali, io proponevo l'eliminazione delle Soprintendenze settoriali e la trasformazione delle Direzioni Regionali in vere e proprie Soprintendenze uniche regionali, cui attribuire tutte le competenze di tutela, ricerca, valorizzazione, compresi i poli museali. Quella proposta forse non fu pienamente compresa e fu unanimemente contrastata, anche da chi oggi sostiene che sarebbe stata la soluzione migliore. Peraltro altri autorevoli colleghi, sostenitori della Soprintendenza unica (ad esempio C. Pavolini o M. Montella ), ritengono che tale modello sia maggiormente applicabile a territori più piccoli e omogenei di quelli regionali e ritengo che anche questa posizione abbia le sue fondate ragioni. Ma non si giunse a discutere di questo, di fronte ai documenti e alle prese di posizione critiche, che di questo tema non si occuparono affatto, limitandosi a una serie di 'no' privi di proposte alternative. Forse i tempi non erano maturi e forse io stesso non fui capace di sostenere adeguatamente quell'idea. Si perse, a mio parere, un'opportunità. Meglio tardi che mai, allora. Ulteriori aggiustamenti, miglioramenti e completamenti saranno necessari, ma intanto un risultato importate è stato raggiunto. Come ho già detto, la riforma Franceschini dell'agosto 2014 aveva, tra le varie novità, unificato le Soprintendenze ai beni architettonici e al paesaggio e quelle ai beni artistici, lasciando autonome le Soprintendenze archeologiche. Era, però, un errore continuare a proporre, a livello sia centrale sia periferico, la frammentazione prodotta da una visione antiquaria e accademica che continuava a tenere separati pezzi di un patrimonio unitario: perché infatti unire architettura e arte e tenere separata l'archeologia? E i monumenti, gli edifici medievali o postmedievali non sono oggetto anch'essi di analisi archeologica?Nel clima arroventato delle recenti polemiche, molti (per lo più storici dell'arte ma anche alcuni archeologi) hanno contestato, e anche ridicolizzato in maniera caricaturale e farsesca, il mio riferimento alla 'visione olistica', divenuta quasi sinonimo di 'tuttologia', 'pressapochismo', 'incompetenza', denunciando, anche in questo, certi limiti della nostra riflessione metodologica e la tradizionale impermeabilità dell'archeologia italiana, ancora oggi forse, nonostante i notevoli progressi degli ultimi decenni , legata a un'impostazione classicista e storico-artistica , nei confronti delle riflessioni e delle prassi della disciplina in Europa e nel mondo. Mi limito solo a ricordare - scusandomi per le inevitabili ovvietà e le rozze approssimazioni - che olistico (che potrebbe semmai avere come sinonimi 'globale', 'totale', 'unitario', 'interdisciplinare') si contrappone, anche nel suo significato filosofico, a 'riduzionistico', che si tratta di una metodologia elaborata in vari ambiti scientifici per l'esame di sistemi complessi, che in archeologia rappresenta (o dovrebbe rappresentare) un approccio da tempo parte integrante del DNA della disciplina .Per restare in Italia, è sufficiente riportare quanto ha recentemente affermato Andrea Carandini, parlando della sua stessa esperienza di archeologo, a proposito delle tecnologie informatiche e dei GIS: "Solo il nostro presente ha reso possibile l'archeologia in senso olistico: quella che non seleziona le opere e mira all'integralità dei contesti. … Fino a pochi anni fa il sapere veniva accumulato e organizzato dalla mente del singolo studioso, che si avvaleva di schede, di cataloghi, di appunti. … Con i 'sistemi informativi archeologici' più evoluti possiamo contare su una sistematicità cui la mente umana non arriva. Questa nuova tecnologia consente di lavorare in un gruppo, che riesce a immagazzinare e gestire cumuli enormi di dati, altrimenti non dominabili. … Cogliere la totalità dà la sensazione di un plenum musicale, come quello di un'orchestra o di un organo. … Gli studiosi tradizionali sono solisti transeunti. Oggi l'archeologia ha bisogno di coralità" .La Soprintendenza unica territoriale è metodologicamente coerente - secondo il parere di chi scrive - con l'approccio territorialista, a partire dall'inscindibilità di natura e cultura e quella tra territorio e storia, promosso dalla Società dei Territorialisti, che già nel suo manifesto fondativo, basandosi su un'idea di 'territorio come bene comune', prevede la necessità di "sviluppare il dibattito scientifico per la fondazione di un corpus unitario, multidisciplinare e interdisciplinare delle arti e delle scienze del territorio di indirizzo territorialista, che sia in grado di affrontare in modo relazionale e integrato la conoscenza e la trasformazione del territorio" . Maurizio Carta, a proposito della cosiddetta 'armatura culturale del territorio', ha giustamente precisato che "il territorio può essere considerato come bene culturale complessivo strutturale, le cui componenti divengono così le invarianti configuranti dei luoghi e connotanti delle comunità, i portatori di segno connotanti del processo evolutivo, il segno della storia, la qualificazione dell'identità e la matrice per una evoluzione storicizzata e contestualizzata" . Territorio e comunità al centro, dunque. Improrogabile, infine, è la necessità di strutture pubbliche più vicine al cittadino, capaci di garantire rapidità e trasparenza delle decisioni. Come ha ben scritto Pavolini "consideriamo la cosa dal punto di vista del comune cittadino. Ognuno di noi si è trovato (o conosce persone che si sono trovate) nella necessità di chiedere legittimamente un permesso di costruire, di ampliare un immobile, di modificare la destinazione d'uso di un lotto, ecc., in presenza di una qualche realtà d'interesse storico: e ognuno ricorda l'esasperante iter burocratico cui i richiedenti - o i malcapitati - hanno dovuto sottoporsi, un iter fatto di istanze inviate a Soprintendenze diverse (vedi sopra), e perché no anche al Comune, con tempi biblici e col rischio di ottenere magari risposte divergenti" .


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