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Per un’innovazione radicale nelle politiche della tutela e della valorizzazione

L’archeologia e, più in generale, tutte le scienze dei beni culturali hanno vissuto una fase di profondo rinnovamento metodologico negli ultimi decenni, ampliando enormemente i propri orizzonti e aprendosi sempre più a forme di interdisciplinarità.[1] Una delle principali conquiste, maturata tra Otto e Novecento, il superamento cioè di una visione limitata al singolo monumento/oggetto e l’affermazione del ‘contesto’, è andata acquistando una centralità metodologica ancor più spiccata e ricca di nuove implicazioni. Basti pensare, limitandoci al campo archeologico – ma analoghe considerazioni potrebbero essere svolte per le altre discipline –, a innovazioni come l’ampliamento degli orizzonti geografici e cronologici, con un interesse non più riservato solo all’antico, ma esteso alle manifestazioni materiali dalla preistoria più remota fino all’età moderna e contemporanea, l’apertura sia agli aspetti culturali e antropologici sia a quelli ambientali, alle scienze archeometriche e allo studio della materia e non più solo della forma, alla pari dignità attribuita a tutti i prodotti del lavoro e non più solo alle manifestazioni artistiche.[2] L’approccio globale, inteso come globalità di sistemi di fonti, di strumenti metodologici e tecnici, di sensibilità culturali, si va sempre più affermando, con il superamento delle anguste logiche settoriali.[3] In tale prospettiva un ruolo determinante è giocato dal paesaggio, ovviamente non più ridotto ad un oggetto di mera valutazione estetica e limitato a énclaves di ‘bel paesaggio’, ma indagato in quanto sistema complesso di relazioni e di processi costruttivi e distruttivi, palinsesto in cui sono nascoste e stratificate le tracce del rapporto millenario tra uomo e natura, delle modalità insediative, delle produzioni artistiche e dei segni del lavoro umano, delle forme dello sfruttamento delle risorse, dei rapporti di potere, delle manifestazioni del sacro, delle espressioni delle culture di ogni epoca.[4] È grazie ad una tale interpretazione olistica che il paesaggio dovrebbe diventare l’oggetto principale e onnicomprensivo anche nelle politiche di tutela, superando ogni affiliazione disciplinare e settoriale e presentandosi come il luogo della convergenza organica di percorsi disciplinari diversi. Se fossimo d’accordo con una tale visione globale, come sarebbe possibile continuare a difendere una tutela parcellizzata e settoriale, figlia una visione antiquaria e accademica che separa ancora oggi pezzi di un patrimonio unitario?

Una visione olistica dovrebbe, infatti, conciliare la preziosa e irrinunciabile specializzazione disciplinare con una moderna interdisciplinarità, sollecitando confronti, interazioni, integrazioni, in un continuo dialogo tra saperi umanistici e tecnico-scientifici e abbandonando definitivamente le forme esasperate dello specialismo disciplinare, settoriale e autoreferenziale, incapace non solo di comprendere fenomeni complessi, ma anche di far fronte alle sfide di una tutela non più solo difensivistica, limitata cioè ai (necessari) vincoli, ma capace di progettualità e di confronti propositivi con la società contemporanea.

Anche per questo motivo, sono convinto che non sia più sufficiente limitarsi alle pur indispensabili richieste di maggiori risorse (dopo anni di soli drammatici tagli lineari) e di personale tecnico-scientifico, soprattutto di energie giovani, con nuove competenze e sensibilità (a fronte di un ormai ridottissimo turn-over, di personale anziano e sempre meno motivato). Tali richieste, pur necessarie, rischiano, infatti, di non affrontare il nodo culturale e metodologico del ruolo del patrimonio culturale e paesaggistico nella società attuale. È necessario, al contrario, un progetto di profonda innovazione, senza il quale, anche in presenza di (auspicabili) maggiori risorse, non saremo in grado di risolvere i reali problemi della tutela. Faccio mie, ancora una volta, le parole Riccardo Francovich: «la tutela non è l’esercizio di un’azione asettica e oggettiva, ma l’opzione operata sulla base di scelte che cambiano nel tempo e nella qualità della formazione di chi la esercita; … è ovvio che più soggetti, più sensibilità e ‘saperi’ nuovi saranno inclusi nei processi decisionali, maggiori prospettive esisteranno per chi intende contribuire alla soluzione dei problemi della salvaguardia e della valorizzazione del patrimonio».[5]

Le resistenze al cambiamento sono però numerose e ben diffuse. Attivissimi sono anche i radicali conservatori, i nostalgici di un presunto passato felice, gli oppositori a qualsiasi cambiamento, che rischiano di trasformarsi nei migliori alleati di chi considera il patrimonio culturale una ‘zavorra’ che blocca lo sviluppo (o meglio un’idea arcaica di sviluppo). È un errore contrapporre cultura e sviluppo, perché la sfida consiste nel saper proporre nuove forme di sviluppo durevole e sostenibile grazie anche al patrimonio culturale e paesaggistico.

Il nostro patrimonio va tutelato e conservato, ma con la capacità dell’innovazione e il coraggio del cambiamento e non confondendo conservazione con conservatorismo. La tradizione, anche la più gloriosa, se non è alimentata continuamente con nuove idee ed energie, avvizzisce, com’è accaduto ad un sistema ormai bloccato ed esausto, non più capace di valorizzare quelle vitalità e quelle straordinarie competenze e professionalità che pure ancora possiede.

Limitarsi a dire solo dei no e a sottoscrivere appelli sempre più stanchi, continuare a difendere in maniera acritica e ideologica l’azione delle soprintendenze sempre e comunque, ‘senza se e senza ma’, anche quando assumono scelte incomprensibili e indifendibili, se non addirittura arbitrarie, rappresenta una posizione difensivistica, marginale e sostanzialmente elitaria, incapace di proporre soluzioni alternative, che rischia di assistere impotente alla dissoluzione, prima o poi, non di questo ma di qualsiasi sistema della tutela (con grande soddisfazione di chi non attende altro).

Il modello organizzativo originario, quando il Ministero fu istituito quarant’anni fa, rispecchiava in maniera coerente la visione ancora antiquaria (sostanzialmente ottocentesca) dei beni culturali. In questi anni, i continui sconvolgimenti normativi e organizzativi non hanno mai intaccato la sostanza, le finalità e gli esiti della tutela, ma si sono limitati a operazioni amministrative con un’enorme confusione di ruoli, sovrapposizioni e conflitti di funzioni tra centro e periferia e, in periferia, tra Direzioni Regionali e Soprintendenze settoriali.

Continuare a insistere sul tema dell’alternativa tra centralismo e decentramento è del tutto irrilevante, perché il vero nodo del problema consiste nella trasformazione delle strutture della tutela da  apparati corporativi e autoreferenziali a organismi inclusivi, innovativi, capaci di coordinare, nell’interesse generale, le attività di studio, di salvaguardia e di valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico.

La riorganizzazione del MiBACT in atto per iniziativa del ministro Franceschini contiene, sia pure in maniera non ancora organica (soprattutto a causa dei limiti imposti dalla revisione della spesa), novità interessanti e importanti. Si comincia, infatti, concretamente a superare la tradizionale frammentazione, a livello sia centrale sia periferico. L’unificazione delle soprintendenze ai beni architettonici e di quelle ai beni storico-artistici e etnoantropologici, la trasformazione delle Direzioni Regionali in strutture di coordinamento, il ruolo forte affidato ad un organismo collegiale come la ‘Commissione regionale per il patrimonio culturale’, che «coordina e armonizza l’attività di tutela e di valorizzazione nel territorio regionale, favorisce l’integrazione inter- e multidisciplinare tra i diversi istituti, garantisce una visione olistica del patrimonio culturale e paesaggistico, svolge un’azione di monitoraggio, di valutazione e autovalutazione», la creazione di sistemi museali regionali, rappresentano concreti passi in avanti. In questo contesto, è il paesaggio, inteso come un continuum[6], ad assumere la funzione di elemento comune per l’intera azione di tutela e valorizzazione. Non siamo ancora alle strutture periferiche uniche a base territoriale, che sarebbero, a mio parere, le più coerenti con tale visione, ma la strada verso la costituzione di équipe con competenze multidisciplinari sembra ormai intrapresa.

Anche la pesante struttura macrocefala si va modificando: pur aumentate di numero le Direzioni Generali, con l’aggiunta di novità relative all’arte e architettura contemporanea, alla ricerca e educazione, ai musei, la struttura centrale dimagrisce nel numero di dirigenti a tutto vantaggio delle articolazioni periferiche, divenute in questi ultimi anni sempre più gracili. Il centro deve, infatti, essere agile e snello, ma non per questo meno forte ed autorevole. La sua forza e autorevolezza dovrebbero esplicarsi mediante una azione decisa di indirizzo, coordinamento, rigido controllo, ed anche di valutazione della qualità dell’attività di tutela, a garanzia di una politica organica sull’intero territorio nazionale. L’annunciata ripresa del turn-over, con il reclutamento di funzionari tecnici assume una luce nuova per restituire al MiBACT la sua peculiare fisionomia tecnico-scientifica.

Il problema reale, dunque, non si riduce (solo) all’aspetto economico e organizzativo ma investe il cuore metodologico, culturale e politico, che riguarda anche l’assoluta necessità di separare la gestione dall’azione di indirizzo/controllo/valutazione, ancora oggi nelle stesse mani. Anche i recenti episodi concussivi, sia pur fortunatamente marginali, sono significativi campanelli d’allarme. Chi detta le regole, chi controlla, chi valuta, non può anche gestire: e gli esempi di una concezione ‘proprietaria’ del patrimonio culturale sarebbero numerosi.

Al contrario, uno Stato forte e autorevole dovrebbe saper cedere quote di potere, svolgendo appieno la sua funzione di indirizzo, di definizione di regole certe, di procedure corrette, di standard qualitativi, nonché di controllo rigoroso e di seria valutazione. Dovrebbe saper, inoltre, favorire processi realmente inclusivi nei confronti del mondo universitario e della ricerca, della cittadinanza attiva, dell’associazionismo, delle fondazioni di partecipazione, certamente con le necessarie forme di indirizzo e monitoraggio.

Un’innovazione di portata epocale dovrebbe riguardare i rapporti tra MiBACT e MIUR, con il superamento definitivo di una logica di contrapposizione e l’affermazione di una visione di sistema statale integrato. Per raggiungere tale obiettivo si sta lavorando a un accordo quadro tra MiBACT, MIUR e CNR, con l’intento di attivare collaborazioni sistematiche (non più limitate all’occasionalità dei buoni rapporti personali), progetti comuni (si pensi alla necessità del superamento delle procedure delle ‘concessioni di scavo’  [7]), con forme di interscambio e integrazione ed anche con la costituzione di unità operative miste, a scala territoriale, tra Soprintendenze, Università e CNR, per certi versi simili, in campo sanitario, alle Aziende Ospedaliere Universitarie.[8] L’auspicabile collaborazione tra docenti, ricercatori, tecnici, funzionari, la condivisione di laboratori, biblioteche, strumentazioni, l’integrazione di competenze e di professionalità potranno, se realizzate, certamente garantire risultati positivi per tutti, nella ricerca, nella tutela, nella comunicazione, nella valorizzazione, a tutto vantaggio in particolare degli studenti, futuri funzionari delle soprintendenze o liberi professionisti, esattamente come accade per i futuri medici nelle sale operatorie e nelle corsie delle cliniche universitarie.

Questa nuova stagione dovrebbe riguardare anche l’ambito della formazione universitaria, prendendo atto del sostanziale fallimento delle recenti esperienze nel campo dei beni culturali, abbandonando le logiche autoreferenziali che hanno portato alla creazione di professionalità improbabili, rendendo più omogenei a livello nazionale i percorsi formativi, eliminando le inutili duplicazioni e operando insieme nel campo della formazione permanente, con una collaborazione organica tra Università, Soprintendenze e associazioni dei professionisti.

I professionisti, infatti, finalmente riconosciuti da una legge dello Stato, costituiscono un’ulteriore importante componente del sistema del beni culturali: urgono però regole certe per superare le attuali condizioni di precariato, caratterizzate da modalità lavorative proibitive, compensi indegni, forme di sudditanza, ricatto, frustrazione, scippo sistematico della proprietà intellettuale.[9]

Ma è il concetto di valorizzazione che andrebbe profondamente modificato. Valorizzazione è ancora considerata da molti una bestemmia, perché contaminerebbe la ‘purezza’ della cultura. Da altri è, invece, è fraintesa come sinonimo di mercificazione. In realtà rappresenta il ponte necessario tra conoscenza, tutela e fruizione: che senso ha conoscere e tutelare un patrimonio culturale che non si vuole valorizzare e come si può tutelare qualcosa di cui non si comprende il valore? Anche in questo ambito, la riorganizzazione voluta dal ministro Franceschini introduce novità in un maggiore equilibrio tra tutela e valorizzazione, in particolare con la nuova centralità assegnata ai musei. Bisognerebbe chiedersi, soprattutto, quale sia il valore che i cittadini attribuiscono al ‘loro’ patrimonio culturale, mentre ancora troppo spesso gli ‘addetti ai lavori’ pretendono, con un tipico atteggiamento accademico e elitario, di imporre il ‘loro’ valore ad un patrimonio di cui si sentono ‘proprietari’.

È invece necessario sollecitare la partecipazione attiva dei cittadini (a partire dalle associazione di volontariato),[10] senza la quale nessuna politica di tutela potrà mai essere vincente. In tal senso, un’esperienza straordinaria è rappresentata dagli Ecomusei.[11] Solo così si potrà contribuire a rafforzare una consapevolezza diffusa del valore dei beni territoriali, e anche a far maturare quella ‘coscienza di luogo’ necessaria per la costruzione di ‘progetti locali’ fondati su nuove forme di sviluppo sostenibile e compatibile con le peculiarità locali.[12] Ancora una volta è il paesaggio a svolgere un ruolo centrale, come dimostrano le recenti esperienze, particolarmente innovative in regioni come la Puglia o la Toscana, dei PPTR e, più in generale, della pianificazione urbanistica e territoriale.[13]

Per stabilire un rapporto più diretto e positivo con la società contemporanea, bisognerà anche superare il grave ritardo nel campo della comunicazione.[14] Bisognerebbe, inoltre, garantire e favorire l’accesso ai dati e la loro libera circolazione, contro una concezione proprietaria fondata su norme assurde e anacronistiche, che impediscono la libera riproduzione dei beni culturali pubblici, nell’età del web, dell’open access e degli open data. Finalmente il recente decreto Cultura e Turismo ha cominciato ad produrre, sotto questo profilo, una inversione di rotta, nonostante la grave limitazione introdotta in sede parlamentare, che esclude i beni archivistici e librari dal  campo di applicazione della liberalizzazione.

Nessuna innovazione sarà però possibile senza un’approfondita riflessione metodologica e senza un confronto libero e laico: anche per questo sono lieto di partecipare al dibattito contenuto in questo volume. Solo se sapremo mettere in campo una forte carica innovativa potremo dare un futuro alle politiche della tutela, uscendo definitivamente dal Novecento (e forse anche dall’Ottocento) per entrare finalmente, anche in questo campo, nel nuovo secolo e nel nuovo millennio. Dovremmo saper mettere da parte la difesa di piccole rendite di posizione, la tendenza alla frammentazione e la chiusura difensiva in piccoli gruppi autoreferenziali, la sindrome da torcicollo che costringe molti a guardare, rimpiangendolo, solo al passato. Sintetizzando in uno slogan (che abbiamo proposto in varie occasioni), è necessario costruire, prescindendo dalle appartenenze e dalle afferenze, una ‘alleanza degli innovatori’. [15] Un progetto che mi auguro veda coinvolti anche gli autori di questo libro.

Pubblicato nel volume: De Tutela, Idee a confronto per la salvaguardia del patrimonio culturale e paesaggistico, a cura di Lorenzo Carletti, Cristiano Giometti, ETS, Pisa 2014.


[1] Sintetizzo in questo contributo quanto già affrontato anche in altre sedi: rinvio a G. Volpe, Università, studi umanistici, patrimoni culturali, paesaggi, in G. Volpe, Patrimoni culturali e paesaggi di Puglia e d’Italia tra conservazione e innovazione, Atti delle Giornate di Studio (Foggia, 30 settembre e 22 novembre 2013), Bari 2014, pp. 23-42; Id., Tavola rotonda, ivi, pp. 271-278; Id., Archeologia, paesaggio e società: le sfide dell’innovazione, in A. Ferjaoui, M. L. Germanà (a cura di), A.P.E.R. Architecture domestique punique, hellénistique et romaine. Sauvegarde et mise en valeur. Architettura domestica punica, ellenistica e romana. Salvaguardia e valorizzazione, Pisa 2014, pp. 00-00;  Id., Archeologia, paesaggio e società al tempo della crisi: tra conservazione e innovazione, in M.C. Parello, M.S. Rizzo (a cura di), Archeologia Pubblica al tempo della crisi, Atti delle VII Giornate Gregoriane (Agrigento 29-30 novembre 2013), Bari 2014, c.s; G. Volpe, G. De Felice, Comunicazione e progetto culturale, archeologia e società, «Post Classical Archaeologies», 4, 2014, pp. 401-420; G. Volpe, R. Goffredo, La pietra e il ponte. Alcune considerazioni sull’archeologia globale dei paesaggi, «Archeologia Medievale», LXI, 2015, c.s.

[2] Per una sintesi dei cambiamenti dell’archeologia cfr. D. Manacorda, Lezione di archeologia, Roma-Bari 2008.

[3] G.P. Brogiolo, Dall’Archeologia dell’architettura all’Archeologia della complessità, «Pyrenae», 38, 1, 2007, pp. 7-38; Manacorda 2008, cit., pp. 230-232; G. Volpe, Per una ‘archeologia globale dei paesaggi’ della Daunia. Tra archeologia, metodologia e politica dei beni culturali, in G. Volpe, M.J. Strazzulla, D. Leone, (a cura di), Storia e archeologia della Daunia, in ricordo di Marina Mazzei, Atti delle giornate di studio (Foggia 2005), Bari 2008, pp. 447-462.

[4] Volpe 2008, cit.; cfr. ora Volpe, Goffredo 2015, cit. Cfr. anche F. Cambi, Archeologia (globale) dei paesaggi (antichi): metodologie, procedure, tecnologie in G. Macchi Janic (a cura di), Geografie del popolamento. Casi di studio, metodi e teorie, Atti della giornata di studi, Siena 2009, pp. 349-357.

[5] R. Francovich, Politiche per i beni culturali fra conservazione e innovazione, «Workshop di Archeologia Classica», I, 2004, pp. 197-205 (199).

[6] S. Settis, L’Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Torino 2002; Id., Paesaggio, Costituzione, Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Torino 2010.

[7] Volpe 2013, cit.

[8] Volpe 2014, cit.; D. Manacorda, M. Montella, Per una riforma radicale del sistema di tutela e valorizzazione, in Volpe 2014, cit., pp. 75-85.

[9] N.M. Mangialardi, Società e professionisti dei beni culturali tra specialismo e precariato, in Volpe 2014, cit., pp. 221-228.

[10] A. Carandini, Il FAI per la Puglia e l’Italia. Il ruolo dell’associazionismo e della partecipazione dei cittadini, in Volpe 2014, cit., pp. 159-167

[11] F. Baratti, Ecomusei, paesaggi e comunità, Milano 2012; Id. Archeologia e paesaggio contemporaneo: l’esperienza ecomuseale in Puglia, in Volpe 2014, cit. pp. 249-259.

[12] A. Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Torino 2010; G. Volpe, Per un’archeologia e un’università ‘territorialiste’, in A. Magnaghi (a cura di), Il territorio bene comune, Firenze 2012, pp. 151-157.

[13] Sul PPTR della Puglia cfr. M. Mininni (a cura di), La sfida del Piano Paesaggistico per una nuova idea di sviluppo sociale sostenibile, in Urbanistica, 147, 2011, pp. 7-71; A. Magnaghi, Il PPTR della Puglia e i progetti di valorizzazione del paesaggio per la qualità dello sviluppo, in Volpe 2014, cit., pp. 175-202.

[14] Volpe, De Felice 2014, cit. Su questi temi, già in relazione alla vicenda dei Bronzi di Riace, cfr. S. Settis, Introduzione, in N. Himmelmann, Utopia del passato. Archeologia e cultura moderna, Bari 1981, pp. 7-44

[15] Manacorda, Montella 2014, cit.; Volpe 2014, cit.


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