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Pompei, scheletro fa storia. La ricerca non ha mai fine

Pompei non smette mai di stupire con le sue meraviglie, a oltre tre secoli dagli inizi delle scoperte borboniche, quando nel 1748 cominciarono gli scavi. Non potrebbe essere diversamente in una delle realtà archeologicamente più importanti del mondo. Anche questa nuova scoperta, insieme ad altre, smentisce quanti ritengono che non si debba più scavare, limitandosi solo a sistemare ciò che è stato finora portato alla luce. Sarebbe come se si dicesse ad un cervello di non acquisire nuovi dati, per sistemare le informazioni già possedute. Ogni nuovo scavo apporta, infatti nuove, informazioni, nuovi dati, nuove risposte e contribuisce a formulare anche nuove ipotesi. Produce cioè ‘lo sviluppo della conoscenza e della ricerca’, esattamente quanto prevede il celebre articolo 9 della nostra Costituzione tra i compiti della Repubblica, insieme alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione.

Gli scavi in questione nascono innanzitutto da esigenze di tutela e di prevenzione, perché riguardano il cosiddetto ‘fronte di scavo’, cioè il perimetro dei vecchi scavi, che rappresenta la zona più problematica e pericolosa, nella quale non a caso si sono verificati spesso i crolli, a causa della pressione della terra contro le domus e gli edifici antichi e dei gravi problemi di smaltimento delle acque piovane. Le nuove indagini sono parte della messa in sicurezza di tale bordo e rappresentano, al tempo stesso, un’occasione di ricerca.

La straordinarietà delle recenti scoperte, infatti, non si limita, infatti, solo al ‘cosa’ si scopre, ma è enfatizzata soprattutto dal ‘come’ si scopre. Gli scavi sono finalmente condotti con un rigoroso metodo stratigrafico e con équipe multidisciplinari, nelle quali all’archeologo si affiancano sul campo l’archeantropologo fisico, l’archeobotanico, l’archeozoologo, il restauratore, l’architetto, l’ingegnere strutturista e altri specialisti ancora. Solo così la qualità del dato può essere garantita con l’individuazione e la documentazione di tracce, anche minime, che consentono di chiarire fenomeni che altrimenti andrebbero persi. E che sono andati a lungo persi, con scavi spesso assai poco attenti. Ad esempio, oggi, grazie agli studi dei vulcanologi, finalmente disponiamo di una sequenza di eruzioni fino a quella del 1815, che ha sigillato le precedenti. Possiamo così ricostruire anche le fasi successive alla celebre eruzione descritta da Plinio.

La scoperta riguarda uno scheletro. Si dirà: ma sono centinaia i resti dei pompeiani morti individuati finora, noti soprattutto con i celebri calchi, che, in maniera geniale, realizzò per primo il grande archeologo Giuseppe Fiorelli. Dov’è la novità? Grazie a un approccio di archeologia globale e con il rigore di uno scavo stratigrafico attento ai minimi indizi, è stato possibile ricostruire nei minimi dettagli gli ultimi istanti di vita di un anonimo cittadino di Pompei, in fuga nel corso dell’eruzione del 79 d.C. Dopo il primo flusso piroclastico che aveva già invaso le strade e il piano terra, il fuggiasco tentò di uscire da una finestra del primo piano scappando verso sud. La sua fuga, rallentata da un problema di deambulazione e da dolori artrosici ben documentati dall’antropologo, fu però rapidamente interrotta dall’ondata di ceneri che gli provocò la morte per shock termico, per effetto di una temperatura non inferiore a 300°, non prima di essersi girato verso il Vesuvio e aver visto in faccia la sua fine, cadendo di spalle a terra. Un secondo flusso piroclastico distrusse a quel punto la parte alta della casa, tanto che un blocco di pietra cadde su di lui, ormai morto, schiacciandogli il petto e staccandogli la testa. Non si tratta di una scena di un film dell’orrore, ma della drammatica sequenza ricostruibile sulla base degli indizi raccolti nel corso di uno scavo condotto con uno stile da detective (anche il lavoro dell’archeologo si fonda, peraltro, sul paradigma indiziario).

Ecco spiegata la straordinarietà della scoperta. La straordinarietà sta in ciò che dovrebbe essere l’ordinarietà di una ricerca archeologica condotta con metodo scientifico, con i mezzi e tutte le competenze propri della moderna archeologia. Anche questo è un merito del direttore Massimo Osanna, collega professore di archeologia all’Università di Napoli Federico II e prima all’Università della Basilicata. A Pompei finalmente si fa ordinariamente una ricerca archeologica di qualità. Insieme a restauri, a pubblicazioni, a mostre, a servizi sempre migliori per i visitatori. La prossima sfida consiste nel portare a regime un’attività di manutenzione programmata assolutamente necessaria. È questa anche una risposta a chi accusa le recenti riforme di aver privilegiato solo i numeri dei visitatori (che sono cresciuti, cosa che dovrebbe far gioire tutti, anche i critici) e una presunta ‘mercificazione’. Pompei che alcuni anni fa rischiava di essere la ‘Caporetto dei beni culturali italiani’, una vergogna nazionale nei confronti dell’Europa e del mondo intero, è diventata il simbolo di un riscatto. Esattamente quello che servirebbe all’intero Paese, in tutti i suoi molteplici settori, se fossero privilegiate la competenza e la qualità del progetto e delle persone cui si affida il compito di realizzarlo.

Pubblicato in La Gazzetta del Mezzogiorno, mercoledì 30.5. 2018, pp. 1, 27


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