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Recuperato il 'bottino' del 're degli scavi' clandestini al Sud

Fabio Isman, grande esperto del fenomeno del traffico illegale di opere d’arte, autore del volume ‘I predatori dell’arte perduta’, l’ha definito «il ‘re’ degli scavi nel Sud e nelle Isole». Si tratta di Gianfranco Becchina, al quale sono stati sequestrati 5361 reperti archeologici in parte esposti nella sede del Museo Nazionale Romano, alle Terme di Diocleziano, dai Carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale in occasione di una conferenza stampa del ministro Dario Franceschini e del generale Mariano Ignazio Mossa, comandante del benemerito Nucleo.

Si tratta del sequestro più ingente e più importante mai messo a segno. Valore oltre 50 milioni di euro. È l’esito di un lungo lavoro investigativo e giudiziario, partito nel 2001 con le perquisizioni effettuate dai marescialli Giuseppe Putrino e Angelo Ragusa a Basilea, durante una delle fiere che periodicamente attraggono nella città eveltica i trafficanti di mezzo mondo, nel negozio e nei magazzini della Antike Kunst Palladion, la società di Becchina e di sua moglie Ursula, detta Rosie.

Gianfranco Becchina, siciliano ultrasettantenne, dall’infanzia povera e difficile, lasciata la Sicilia dopo la precoce morte del padre, vive prima a Carbonia in Sardegna da uno zio, lavorando in un bar, poi emigra in Svizzera dove lavora come facchino all’Hotel Helvetia di Basilea (che poi acquisterà), lanciandosi nel mercato delle antichità, dopo aver rilevato la galleria Palladion. Qui lavorava Rosie, diventata sua moglie, che continuerà per anni a gestire la galleria. Il suo primo colpo in grande stile risale al 1984, quando vende al Getty Museum, per 10 milioni di dollari, una statua greca arcaica, un kouros, poi risultato falso. Un colpo che gli fa fare il salto di qualità (ma che gli creerà anche una certa fama di inaffidabile), diventando il dominus del traffico illegale di materiale archeologico in tutta l’Italia meridionale e nelle due Isole. Rapidamente arricchitosi, si costruisce col tempo un’immagine di grande imprenditore, con vasti terreni agricoli e aziende (suo il famoso marchio ‘olio verde’, che rifornisce anche la Casa Bianca), un palazzo nobiliare a Castelvetrano appartenuto ai Pignatelli d’Aragona Cortez, una tenuta sul mare a Selinunte nei pressi del parco archeologico, due grandi aziende di cemento dai nomi mitologici, Herakles e Atlas, in Grecia e in Sicilia. Stabilisce relazioni internazionali con i curatori dei principali musei del mondo, principalmente statunitensi ai quale vende i suoi pezzi (dal Getty al Metropolitan Museum of Art di New York, al museo di Toledo nell’Ohio e altri ancora), con studiosi e restauratori dai pochi scrupoli, con collezionisti, gallerie e case d’asta. Per alcuni decenni è stato, insieme a Antonio Savoca e Giacomo Medici, uno dei tre più grandi trafficanti italiani. Mette in piedi una rete capillare di ‘tombaroli’ che per anni depredano migliaia di tombe antiche, domus e ville romane, templi e santuari. Com’è emerso dalle indagini, costruisce un triangolo criminale con Robert Emanuel Hecht, detto Bob, suo grande amico, che con la sua Galleria Atlantis Antiquities di New York rifornisce musei e collezionisti di tutto il mondo (fu lui ad esempio a curare la vendita del celebre vaso di Eufronio al Metropolitan, recentemente restituito a Cerveteri), e con Raffaele Monticelli, ex maestro elementare, che controllava e finanziava lo scavo clandestino in maniera sistematica in Italia meridionale, in particolare in Puglia.

Forte è stata la concorrenza con Medici, che negli anni Settanta sfila a Becchina, proprio nel territorio da lui controllato, la Daunia, un enorme ‘affare’: gli straordinari marmi policromi, tra cui i celebri grifoni, di Ascoli Satriano, venduti, attraverso l’intermediazione di falsi collezionisti, al Getty Museum e recentemente recuperati ed esposti nel locale museo civico. Tra i due, infatti, si stabilisce una sorta di divisione del territorio archeologico italiano, il Sud e Isole a Becchina, Etruria e Italia centrale a Medici, ma ovviamente non sono mancate le incursioni al di fuori delle rispettive aree d’influenza.

Impressionante il quadro che emerge dai materiali sequestrati, che, per quantità e qualità, farebbero invidia a quelli dei principali musei archeologici italiani e non solo. Tra le migliaia di reperti, emerge con forza la netta prevalenza dei materiali provenienti dalla Puglia, in particolare dalla Daunia (ma non mancano oggetti della Peucezia e anche della Messapia e dell’intera Magna Grecia): stele daunie dall’area di Siponto-Manfredonia, migliaia di ceramiche geometriche, policrome, a decorazione policroma e plastica, a fasce, listate, dorate/argentate, a vernice nera, sovraddipinte, cd. di Gnathia, ma anche statuine, terrecotte, antefisse, bronzi, armature, oreficerie, insomma un intero universo archeologico della civiltà della Daunia, databile tra l’VIII-VII e il III-II secolo a.C., irrimediabilmente asportato dai contesti originari delle necropoli di Arpi, Ascoli Satriano, Ordona, Salapia, Tiati, Canosa e altre ancora. A queste si aggiungono merci d’importazione, ceramiche greche attiche, corinzie, laconiche, greco-orientali, anch’esse verosimilmente parte di corredi di necropoli dell’Italia meridionale e della Sicilia o dell’Etruria, oltre a ceramiche etrusche e a bronzetti nuragichi sardi. È difficile fare statistiche, ma è indubbio che siamo in presenza di oggetti provenienti da migliaia di sepolture depredate. Non mancano anche reperti di età romana, sculture, ceramiche, bronzi, lucerne, anfore commerciali e numerosi affreschi strappati dalle villae e domus dell’Italia romana, forse dell’area vesuviana, trasformati in quadri e destinati a decorare le pareti delle ricche e un po’ kitsch dimore di collezionisti.

I danni al patrimonio e alla memoria del nostro Paese sono ingenti. Sia pur recuperati, ma irrimediabilmente estrapolati dal loro contesto originario, questi materiali restano, al di là del loro valore estetico, in gran parte muti in riferimento alla storia di ogni sito depredato, al loro peculiare significato culturale, ideologico, religioso, al ceto sociale e ai personaggi che rappresentavano.

Accanto ai reperti, il pezzo forte del sequestro è rappresentato dallo straordinario archivio di documenti, foto, appunti, ricevute, lettere, etc., tra cui, ad esempio, le foto del sarcofago della cd. ‘bella addormentata’, rinvenuto in un magazzino nel Queens, a New York, dagli agenti federali, pronto per essere spedito in Giappone; lo straordinario pezzo era stato acquistato per tre milioni di dollari da Noriyoshi Horiuchi, noto mercante di antichità legato a Becchina. Insomma è una vera miniera d’informazioni sulle tante relazioni criminali, comprese quelle con personaggi di primo piano della mafia, come Matteo Messina Denaro.  Ma per tutti i suoi reati Becchina non pagherà, essendo andati tutti in prescrizione!

Resta ora da decidere quale destino avranno questi reperti. Molto probabilmente saranno restituiti ai loro territori di appartenenza, sulla base dell’analisi archeologica e della ricca documentazione dell’archivio dei Becchina, che potrebbero in molti casi, ma non sempre, precisarne l’origine. Non è escluso, però, che in tal caso molti di questi materiali rischierebbero di finire in casse, nei depositi già affollati di musei e soprintendenze, tranne pochi esemplari particolarmente significativi. E questo aggiungerebbe beffa al danno. Ma perché, allora, non costruire con essi (e altri recuperati da altri trafficanti), un Museo della ‘Grande Razzia’, capace di illustrare e raccontare, anche con la forza suggestiva della quantità dei reperti, i danni dello scavo clandestino e del commercio archeologico illegale, anche grazie a foto, video, documenti processuali, ricostruzioni virtuali, nuove tecnologie. Un museo didattico che educhi al senso civico e al rispetto di quell’identità culturale che i tombaroli e i trafficanti d’arte, e le mafie che li controllano, violentano e disperdono. Su dove farlo ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta. Possibilmente in un luogo simbolo, come ad esempio Taranto, il cui patrimonio culturale e archeologico è da decenni violentato e che proprio sulla cultura dovrebbe cercare un suo nuovo futuro, o in Daunia, un territorio che conosce da sempre la piaga dello scavo clandestino e che ha avuto in Marina Mazzei, funzionaria capace e integerrima della Soprintendenza impegnata nella lotta contro i tombaroli, uno degli  esempi di uno Stato che non rinuncia a proteggere e valorizzare il patrimonio di tutti. 

Immagini:

  1. Stele daunie, forse dalla zona lagunare di Manfredonia-Siponto (VII-VI secolo a.C.)
  2. Ceramiche a figure rosse di produzione apula (IV secolo a.C.)
  3. Ceramiche a figure rosse di produzione apula (IV secolo a.C.)
  4. Ceramiche a decorazione policroma e plastica canosina (IV-III secolo a.C.)
  5. Ceramiche daunie a decorazione geometrica e listata (IV-III secolo a.C.)
  6. Ceramiche geometriche, a fasce, a figure rosse (IV-III secolo a.C.) e sul fondo  pannelli con pitture parietali romane.
  7. Ceramiche cd. di Gnathia (IV-III secolo a.C.) e sul fondo  pannelli con pitture parietali romane.
  8. Alcune oreficerie, tra cui una corona, un bracciale, fibule, fermatrecce

 


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