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Relazione su Università italiana e Unifg

Per mettere a disposizione di tutti alcune mie considerazioni sulla situazione dell'Università italiana, alcune proposte per il fururo, oltre ad un'analisi delle cose fatte come rettore dell'Unifg, ho deciso di pubblicare la mia relazione all'inaugurazione dell'AA 2012-13.
Il video della cerimonia è disponoibile sul canale you tube: http://www.youtube.com/user/UniversitadiFoggia



La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

(Costituzione della Repubblica Italiana, art. 9)

 

 

Gentile ospite, dott. Piero Angela, Autorità civili, giudiziarie, militari e religiose, cari Colleghi Rettori e delegati delle Università italiane, cari Colleghi docenti, Collaboratori tecnici e amministrativi, Studenti, Signore e Signori,

 

porgo a tutti Voi il più cordiale saluto, insieme ad un sentito grazie per la Vostra partecipazione alla Cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2012-2013. Una partecipazione che, come ho potuto verificare in questi anni, testimonia l’interesse e anche l’affetto che nutrite per la nostra giovane e dinamica Università, un interesse e un affetto addirittura accresciuti proporzionalmente alle difficoltà che il nostro Ateneo ha dovuto e deve ancora affrontare.

Un ringraziamento affettuoso ai tanti amici Rettori e in particolare al Presidente della CRUI-Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, prof. Marco Mancini, per la seconda volta qui a Foggia in pochi mesi: la Vostra numerosa partecipazione anche quest’anno conferma, credo, non solo il rapporto personale di amicizia e di stima che ci lega ma anche la considerazione e il ruolo che l’Università degli Studi di Foggia si è andata conquistando in questi anni nel panorama nazionale.

Un grazie particolare rivolgo al nostro gentile ospite, Piero Angela, che ha accolto il  nostro invito pur tra i suoi tanti impegni di lavoro.

 

Quale ruolo per la scienza e l’Università nella società che cambia

In questi anni abbiamo sempre voluto caratterizzare la cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico affrontando un tema specifico, anche per evitare il rischio di trasformarla in un stanco rito un po’ retorico.

Dopo aver dedicato l’inaugurazione del 2009 al decennale dell’Università degli Studi di Foggia con il convegno internazionale Adrias nel quale si è affrontato specificamente il tema della cooperazione scientifica e culturale in area adriatica, dopo la cerimonia del 2010 consacrata all’Unità d’Italia con l’autorevole presenza del Presidente della Camera, on. Gianfranco Fini, e dopo aver posto nel 2011 al centro il tema della solidarietà e dell’impegno sociale, insieme alla denuncia delle disumane condizioni di vita e di lavoro di migliaia di migranti nelle campagne pugliesi, con la partecipazione della Presidente di Emergency, Cecilia Strada, abbiamo voluto scegliere, per l’inaugurazione di quest’anno il tema del rapporto tra scienza e società, perché riteniamo che oggi più che mai il nostro Paese debba riflettere sul ruolo che la formazione e la ricerca possono e devono avere nella costruzione del futuro.

Sono temi ai quali Piero Angela ha sempre dedicato grande attenzione e che sta affrontando anche in queste settimane in una serie di edizioni speciali di Super Quark, la trasmissione che da molti anni, rivolgendosi a milioni di persone che spesso non hanno alcun rapporto con il mondo della ricerca scientifica, porta la scienza nelle case degli italiani, sempre in maniera seria, approfondita, chiara e semplice, mai banale, senza facili sensazionalismi o fughe irrazionali verso misteri e avventure, tipici di certa pseudo-divulgazione.

Considero Piero Angela un prezioso alleato dell’Università e del mondo della ricerca perché aiuta noi ricercatori a far comprendere l’utilità sociale del nostro lavoro, svolto, è bene ricordarlo, quasi esclusivamente con fondi pubblici, cioè con le tasse dei cittadini. È dunque doveroso, oltre che necessario, comunicare i risultati della nostra attività di ricerca e di formazione, non solo nelle sedi scientifiche proprie, ma anche attraverso altri canali, altri strumenti, anche altri linguaggi. 

Anche così si potrà sperare di vedere finalmente posti al centro di un’agenda di governo, di un programma di sviluppo, di un progetto di futuro, l’investimento in ricerca e formazione, stabilendo una stretta relazione tra queste priorità e quelle del lavoro, della salute, della salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio, della cultura, della solidarietà sociale, della legalità, del rispetto delle regole, della valorizzazione del merito: senza queste priorità è del tutto anacronistico e retorico parlare di sviluppo, di crescita e di competitività, in termini, cioè, di un autentico sviluppo democratico di un Paese realmente moderno. 

Le domande potrebbero essere tante, a partire da una fondamentale: serve oggi la ricerca scientifica? E se serve, a chi serve? E chi può valutarla e sulla base di quali criteri? Sono domande che assumono un rilievo particolare a proposito delle scienze umane e sociali, sulle quali mi permetterò di sollecitare qualche riflessione, ad integrazione di quanto attendiamo di ascoltare dal nostro ospite ed anche di quanto dirà, nella sua prolusione, il prof. Cristoforo Pomara, nostro valido ricercatore, professore aggregato di Medicina Legale, componente dell’attivissimo gruppo di ricerca diretto dal prof. Vittorio Fineschi, e che, oltre ad essere il delegato rettorale alla ricerca, si è recentemente segnalato per l’approvazione di un importante progetto FIRB (Fondo per gli Investimenti della Ricerca di Base) da lui coordinato, classificatosi al primo posto nella graduatoria italiana. Credo che non sfugga a nessuno la scelta di affidare ad un giovane ricercatore sia la responsabilità della delega alla ricerca sia ora il prestigio della prolusione accademica. Un validissimo ricercatore è anche il delegato al trasferimento tecnologico, il prof. Massimiliano Granieri, tra i massimi esperti in materia di diritto d’autore, proprietà intellettuale, trasferimento di conoscenza, del quale è possibile leggere, nel dossier, un bel contributo dal titolo ‘Dal trasferimento tecnologico al trasferimento di conoscenza. L’esperienza dell’Università di Foggia’. Sono, questi, solo alcuni dei segni tangibili dell’attenzione che questa Università riserva alla propria principale risorsa, i giovani ricercatori, accanto a quella degli studenti, il futuro della ricerca e della conoscenza, spesso oggi condannati ad una condizione di precarietà e di grave sottovalutazione sociale.

Ma torniamo al tema del ruolo sociale della scienza, o meglio delle scienze. Un pregiudizio assai diffuso porta a ritenere, infatti, che le scienze vere siano quelle cd. esatte, queste sì, soprattutto nelle componenti tecnologiche, ritenute utili, mentre di minore considerazione godono le scienze umane.

La contrapposizione tra le due culture, affrontata già negli anni Cinquanta da Charles Percy Snow, è, a mio parere, non solo sterile ma anche pericolosa e improduttiva, oltre ad essere una delle cause (e, comunque, uno degli effetti) del disagio che viviamo. Tutti i momenti di maggiore sviluppo della civiltà occidentale hanno visto, infatti, uno stretto legame tra le scienze umane e le scienze della natura, integrate e quasi fuse tra di loro: si pensi, ad esempio, all’Ellenismo o all’Illuminismo. Ogni volta in cui, al contrario, si sono prodotte gerarchie insensate, come quando, sotto il peso dell’idealismo, scienza e tecnica sono state considerate e percepite come estranee alla Cultura, la società ha pagato prezzi altissimi.

La nostra vita è oggi pervasa dalle tecnologie. Le scienze e le tecnologie esprimono risposte certamente più immediate ai bisogni primari di masse sterminate di umanità, sono più direttamente vicine alle loro esperienze. Ma le scienze umane toccano ancora temi come il significato profondo della vita e i bisogni più intimi delle persone, riescono a fornire quei dati, fatti di domande e di tentativi di risposta, che sono indispensabili per conoscere se stessi. La complementarità è dunque obbligata. Se le scienze dure ci insegnano come fare e ci indirizzano sulla strada del cosa fare, le scienze umane ci aiutano ancora, oggi e sempre, a comprendere perché fare.

La ricerca umanistica in Italia conta su una lunga gloriosa tradizione, rappresenta un vero primato italiano in tutti i campi. Eppure questo ampio e articolato settore scientifico è oggi fortemente penalizzato nel suo insieme. Tale pregiudizio si concretizza in numerosi interventi di natura politica e finanziaria: dalla sempre maggiore scarsità di finanziamenti alla quasi totale esclusione dai principali progetti europei, dalla spinta sempre più forte verso strategie autonome di ricerca di finanziamenti nel settore privato, che certamente privilegia discipline più facilmente ‘monetizzabili’, alla definizione dei criteri preposti alla valutazione con l’imposizione di sistemi bibliometrici e di parametri tratti dalle scienze dure. Tutto questo ha ripercussioni di varia natura, come, ad esempio, la progressiva crisi e/o trasformazione delle sedi editoriali, il difficile destino di molte case editrici, fino al rischio della stessa scomparsa della lingua italiana nel panorama scientifico, e, soprattutto, alla perdita di un ruolo sociale.

Nel momento in cui le scienze umane sono rappresentate e sentite come inutili, il rischio di marginalizzazione e quello opposto di reazioni di chiusura e isolamento o di inseguimento di facili mode e di inevitabile snaturamento, sono assai forti.

Oggi viviamo un cambiamento epocale che ha rovesciato, specialmente in Italia, gerarchie di prestigio un tempo ben diverse. Le scienze e, soprattutto, le tecnologie hanno conquistato un ruolo che ha sconvolto definitivamente i sistemi formativi dell’Italia crociana e gentiliana. Ma le scienze umane sbaglierebbero a chiudersi in se stesse e ad auto-marginalizzarsi, limitandosi a condannare, sia pur giustamente, l’atrofizzazione dei canali di finanziamento (che del declino forse sono più un effetto che una causa), mentre sarebbe necessario affrontare il tema del ruolo della scienza tout court rispetto a questioni importanti come la formazione della classe dirigente, i processi di innovazione, i rapporti tra economia e cultura, tra impresa e ricerca.

Tocca a noi ricercatori far comprendere la necessità di una complementarità tra le due culture sia all’opinione pubblica sia alla politica, soprattutto in una fase in cui pare prevalere una visione tecnocratica dell’Università, secondo la quale gli investimenti dovrebbero essere concentrati in campo tecnologico e scientifico, come appare evidente, ad esempio, nel programma europeo Horizon 2020.

Tullio De Mauro ha recentemente messo in guardia dall’‘ondata scientista’ ed Umberto Eco ha denunciato la «politica che deprime le Facoltà umanistiche, mette in discussione lo sviluppo armonico dei saperi e consegna il Paese a una nuova forma di barbarie e dipendenza coloniale».

Stiamo attraversando un’epoca difficile ed anche angosciosa, ma si presenta a noi anche la straordinaria opportunità di confrontarci con scelte epocali, che, io credo, solo le scienze umane sono in grado di affrontare in maniera globale, nella loro complessità. Nei grandi conflitti planetari, nelle contrapposizioni tra culture e credo religiosi, negli scontri sulla distribuzione della ricchezza e sul consumo delle risorse, il confronto avviene solo apparentemente a livello di saperi scientifici e tecnologici, ma sempre più sul terreno delle scienze umane, indispensabili «per costruire comunità cosmopolite, riflessive e tolleranti, aperte al confronto, capaci di riavviare le ‘culture dell’interpretazione’ dopo la desertificazione culturale prodotta da una visione economicistica della conoscenza» (M. Dantini, L. Roscioni).

Per affrontare queste questioni, bisogna saper andare, come facciamo noi storici, ben al di là del mero accumulo dei dati, per dare un significato alle cose, integrarle e ricomporle, contestualizzarle, ritrovandone i fili, in modo da mostrarle significativamente nello spazio e raccontarle ordinatamente nel tempo.

Ma sono capaci ancora oggi le scienze, e quelle umane prime fra tutte, di affrontare queste sfide?  

Dobbiamo ammettere che la crisi attuale dell’Università e dell’area umanistica, in particolare, sia dovuta non solo agli scarsi investimenti e ai ripetuti scossoni normativi e organizzativi, ma anche alla pretesa di formare figure professionali precarie o inesistenti, con la perdita di una solida formazione di base, vanto della nostra Università, provocata anche da un’applicazione sciatta e confusionaria del modello del 3+2, peraltro particolarmente inadeguato, a mio parere, soprattutto nell’ambito umanistico. Si stanno producendo masse di laureati non solo prive di competenze professionali specifiche indispensabili per avere accesso al mondo del  lavoro, dell’insegnamento e della ricerca, ma anche della necessaria capacità critica.

Recentemente, un giornale non sospettabile di posizioni rivoluzionarie come il New York Times ha lanciato un grido di allarme verso i rischi di un futuro popolato di tecnici privi di senso critico e di indipendenza intellettuale, docili e subalterni ai vertici finanziari e tecnocratici.

È proprio lo sviluppo della capacità critica uno degli obiettivi prioritari della Scuola e dell’Università, ed in particolare proprio delle discipline umanistiche, in un momento in cui masse sempre più ingenti di informazioni e di dati sono disponibili sulla rete, che i giovani (e non solo loro) spesso utilizzano in maniera del tutto acritica (basti pensare all’esperienza che ciascuno di noi docenti vive guidando un allievo nella preparazione di una tesi). Da sempre siamo persuasi, e giustamente, che l’esercizio assiduo dell’analisi e dell’interpretazione (ad esempio, di un testo letterario o di un’opera d’arte o di un monumento, ecc.) favorisca la capacità di orientarsi in contesti complessi.

Dobbiamo, dunque, tornare ad insegnare ai nostri allievi i metodi e gli strumenti per l’analisi critica, e cioè non solo a cercare risposte, ma, anche e soprattutto, a stimolare nuove domande, nella convinzione, come sosteneva Ludwig Wittgenstein che porre «una nuova domanda è non solo più difficile che dettare l’ennesima risposta ai problemi dell’umanità, ma è anche, e di gran lunga, più proficuo».

Ecco perché è proprio il sempre progressivo deficit d’insegnamento critico e qualificato che va denunciato, insieme alle gravi responsabilità del caos nei processi di reclutamento non sempre meritocratici e trasparenti e alla mancanza di scelte politico-istituzionali e di finanziamenti adeguati.

Sono anche convinto che per riaffermare un ruolo importante delle scienze nella società italiana ed europea si debba, accanto alla necessaria difesa delle specificità, favorire e sviluppare la multidisciplinarità, le forme d’integrazione, le contaminazioni. Bisogna saper uscire dalle énclaves tranquillizzanti e autoreferenziali e dar vita a spazi comuni tra discipline umanistiche e scienze dure, dai dottorati ai progetti di ricerca e alle società scientifiche. Serve un rapporto intelligente e non subalterno con le tecnologie, enfatizzando le capacità tipicamente italiane di innovazione metodologica, di creatività, e, soprattutto, rifiutando un’idea delle tecnologie utili in quanto tali o come strumento di spettacolarizzazione, ma considerando le tecnologie quali strumenti al servizio di un progetto culturale. Serve una maggiore attenzione al tema del trasferimento tecnologico anche nei settori non tecnologici, umanistici appunto, come comincia a fare la rete universitaria Netval, assumendo la responsabilità di affrontare, anche in campo umanistico, il tema del trasferimento di conoscenza, della nascita di società di spin-off, del sostegno all’industria culturale e creativa, oltre ad una maggiore attenzione alla comunicazione, a volte molto ben fatta, come da anni dimostra Piero Angela, ma altre volte lasciata a divulgatori pasticcioni e poco seri. Spunti di grande interesse, a questo proposito, sono indicati nel citato contributo di Massimiliano Granieri, al quale rinvio.

 

Motore dell’innovazione e dello sviluppo territoriale: ma quale sviluppo?

Facciamo l’esempio dei beni culturali, da anni al centro del tema del rapporto tra economia e cultura. Si ripete spesso che il patrimonio culturale sia anche una risorsa economica. È vero, è innegabile. Ne sono convinto anch’io. Quest’affermazione è però insufficiente e impropria, se contrapposta al valore della cultura in sé, cioè ad un valore immateriale, in mancanza del quale tutto perde valore. In questo senso dovremmo intenderci sul significato di valorizzazione, parola che dovremmo liberare da due opposti: che sia un sinonimo, rozzo e sbrigativo, di mercificazione o che con essa, al contrario, si produca la perdita della presunta purezza della Cultura.

La valorizzazione del patrimonio culturale, infatti, può e deve certamente contribuire ad accrescere anche il livello economico di una comunità, ma le ricadute che un museo, un parco archeologico, un archivio o una biblioteca possono avere sono diverse e ben più ‘remunerative’ rispetto ad una malintesa visione mercantilistica del bene culturale, come hanno compreso anche i più avvertiti economisti della cultura. Bisognerebbe, al contrario, valutare ed anche quantificare i vantaggi in termini di miglioramento del benessere e della qualità della vita, intesa come crescita culturale e civile, come affermazione di una matura ‘coscienza di luogo’, come stimolo alla conoscenza della propria storia, come consolidamento dell’identità culturale della comunità locale, come apertura verso orizzonti culturali altri.

Ma più in generale, questo deve essere, tra gli altri, un impegno dell’intero mondo universitario, trasformando la propria attività di studio e di conoscenza in un’operazione culturale collettiva, cioè in impegno civile. Dobbiamo saper comunicare, saper raccontare, saper esprimere una vera passione comunicativa e civile, interrompendo la lunga separazione fra ricerca e società, senza cadere necessariamente nel volgare uso pubblico della scienza e della storia, anzi contribuendo ad evitare questo rischio che anche l’Italia ha conosciuto nel suo recente passato.

Abbandonando la bieca retorica della cultura e del patrimonio culturale sempre sbandierato dai media e nei discorsi di certa politica, è necessario affermare, a livello sociale, la convinzione che l’investimento in cultura è una delle ancore di salvezza per il nostro Paese, altrimenti destinato ad una triste inesorabile retrocessione senza futuro.

Ci sarebbe da chiedersi se l’Italia e l’Europa non possano essere una sorta di grande Museo del pianeta, luogo della memoria storica, non solo europea e mediterranea, ma mondiale, il luogo della conservazione, della riflessione, dello sviluppo futuro, cioè della pace, dando così piena applicazione al Nobel appena assegnato.

Il patrimonio cultuale è, come ci ricorda da anni Salvatore Settis, «un dato essenziale dell’essere Italiani, che, come i gesti e la lingua, si trasmette e si radica senza che ce ne accorgiamo». Lo respiriamo, è intorno a noi, fa parte di noi. Ancor di più il paesaggio, vero e proprio museo vivente dell’evoluzione culturale, palinsesto di paesaggi stratificati, patrimonio di immagini condivise da una comunità.

Se devo immaginare un futuro per l’Italia e il Mezzogiorno (e non posso non pensare al caso emblematico di Taranto e dell’ILVA), penso alla straordinaria bellezza del suo paesaggio, pur violentato in questi anni, ai suoi beni cultuali, alla sua creatività. Immagino, cioè, la capacità di applicare l’innovazione non solo all’industria manifatturiera, la cui crisi appare irreversibile in un mondo nel quale ci sarà sempre un luogo in cui il costo del lavoro e delle materie prime sarà più basso, ma anche e soprattutto al mondo della cultura e del patrimonio culturale.

In questo senso, si inserisce quello che, a mio parere, può essere un ruolo strategico dell’Università. Da anni si sottolinea l’importanza della terza missione dell’Università, quella cioè di motore dell’innovazione e dello sviluppo territoriale. Ma il problema è: quale sviluppo? 

Noi tutti abbiamo abbandonato da tempo l’idea di Università vissuta come “torre d’avorio”, la consideriamo un’istituzione aperta, pronta al dialogo, desiderosa di cogliere le sollecitazioni e il contributo della comunità e del territorio nel quale opera. Come ho sostenuto fin dall’inizio del mio mandato, l’Università deve innanzitutto svolgere un ruolo di conoscenza delle complessità dei territori, deve saper essere non solo strumento di conoscenza ma anche soprattutto strumento di coscienza. Solo così potrà contribuire ad affermare il territorio come bene comune.

È un ruolo, questo, che considero particolarmente importante per le Università del Sud, operanti spesso in territori che hanno perso identità, violentati tanto dalle mafie quanto dall’imposizione di modelli di sviluppo impropri: bisogna al contrario promuovere la conoscenza e la difesa della propria storia, la valorizzazione del proprio patrimonio di paesaggi, di cultura, di tradizioni e di risorse, la maturazione di una diffusa coscienza di luogo, la crescita di forme di partecipazione e di cittadinanza, per uscire dalla subalternità e dall’afasia alle quali troppo a lungo, anche per colpe degli stessi meridionali, il Sud è stato condannato.

Le Università devono, in particolare, contribuire a migliorare il Paese, valorizzando le migliori risorse, contribuendo a costruire un argine contro il vero e proprio tsunami demografico che nel giro di alcuni decenni rischia di svuotare il Sud dei giovani.

 

«Io credo di essere rappresentativo di quegli strati profondi delle masse popolari più umili e più povere che aspirano alla cultura, che si sforzano di studiare e cercano di raggiungere quel grado di sapere che permetta loro non solo di assicurare la propria elevazione come persone singole, di sviluppare la propria personalità, ma di conquistarsi quella condizione che conferisce alle masse più popolari un senso più elevato della propria funzione sociale, della propria dignità nazionale e umana».

(Giuseppe Di Vittorio, Congresso della Cultura popolare, Bologna 1953)

 

«E’ stato grazie ad esempi del genere [di E. Mattei e N. Mandela] che ho capito quanto servano a poco le idee senza la forza di un gesto che le trasformi. Ma questo sarebbe successo anni dopo: al liceo ero solo una spugna che incamerava più informazioni possibili. Ero affamato di tutto, e affascinato, in eguale misura, sia dalle rivoluzioni degli altri che dalle regole ferree della fisica e della matematica … L’incontro con un professore che non avrei mai dimenticato, all’ultimo anno del liceo, mi fece capire che c’era molto di più oltre alle semplici regole».

(Yvan Sagnet, Ama il tuo sogno, 2012).

 

Queste citazioni, così diverse eppure così simili, di due persone così distanti nel tempo eppure così vicine nelle stesse lotte a difesa degli ultimi, contro lo sfruttamento e per i diritti, dimostrano come solo la cultura, la scuola, la formazione possano garantire la libertà, la dignità, la prospettiva per una crescita individuale e collettiva.

 

Resistere alla crisi, costruire il futuro

Il mio mandato è conciso con una delle fasi più difficili e tristi dell’Università italiana. Francamente non augurerei a nessun collega di vivere l’esperienza di rettore, in particolare di una piccola e giovane Università meridionale, al tempo dei tagli di Tremonti-Monti e delle politiche universitarie di Gelmini-Profumo. Pochi mesi prima di insediarmi, per iniziativa dell’ex ministro Tremonti con il Decreto n. 112 dell’agosto 2008, divenuto legge n. 133/2008, si cominciava ad assestare il primo decisivo colpo al finanziamento delle Università, che poi in questi anni ha conosciuto un aggravio sempre maggiore, che solo per sensibilità vi risparmio, avendone parlato e scritto in tantissime sedi.

Il Fondo di Funzionamento Ordinario-FFO ha perso circa un miliardo tra il 2008 e il 2013 e ormai copre appena, a livello nazionale, le spese del personale, passando dai 7,418 miliardi di euro del 2008 ai 6,457 del 2013; ad essi si sono aggiunti i tagli al diritto allo studio e agli alloggi studenteschi. Ultimo in ordine di tempo è l’ennesimo schiaffo all’università con il taglio di 300 milioni per il 2013 ratificato con la Legge di Stabilità, che pure ha previsto una serie di mance a varie lobbies, che ha messo in concorrenza in maniera indecente i fondi per l’università e quelli per i malati di SLA e ha confermato investimenti consistenti per altri settori evidentemente sentiti maggiormente strategici rispetto a formazione, ricerca e cultura, come, ad esempio, l’acquisto dei caccia F35 il cui costo per i cittadini equivale quasi al doppio del finanziamento per tutte le università italiane.

Un sistema di criteri premiali, in alcuni casi volutamente punitivi nei confronti di certe Università, ha poi contribuito in maniera essenziale ad accrescere sperequazioni già accentuate nel sistema di distribuzione del finanziamento pubblico.

Ma quello che mi ha preoccupato maggiormente in questi anni è stato assistere ad una progressiva perdita di solidarietà all’interno del sistema universitario nazionale, in una fase caratterizzata da tagli al finanziamento, ripetuti scossoni legislativi, attacchi mediatici e conseguente perdita di credibilità. Ricordo le prime crepe legate alla nascita dell’associazione AQUIS, costituita da un gruppo di Università auto-attribuitesi la qualifica di “Università di qualità”, cui ha fatto seguito una lunga fase di latente contrapposizione interna al sistema universitario nazionale. Confesso una certa stanchezza nel continuare a porre queste questioni, sapendo di essere considerato da alcuni un noioso meridionale piagnone: resto, però, persuaso che esista una questione universitaria meridionale esattamente come la più generale questione meridionale e che entrambe debbano essere considerate questioni nazionali, dalla cui soluzione non si può prescindere per il futuro dell’intero Paese. Devo con piacere, al tempo stesso, riconoscere che negli ultimi tempi questo clima è andato cambiando, essendo maturata maggiormente la consapevolezza delle difficoltà generali del sistema e anche grazie ad un diverso indirizzo all’interno della CRUI.

In uno dei miei interventi in assemblea ho richiamato i noti versi di Bertold Brecht, per ricordare che nessuna Università è un’isola, che solo insieme, nella sua complessità e nelle sue tante differenze, il sistema universitario italiano si può salvare e tornare a crescere.

 

Nessun uomo è un'isola

Prima vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubavano

Poi vennero a prendere gli ebrei e tacqui perché mi erano antipatici

Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché erano fastidiosi

Poi vennero a prendere i comunisti ed io non parlai perché non ero comunista

Un giorno vennero a prendere me e non c’era rimasto nessuno a protestare

 

Le Università italiane rischiano, infatti, di commettere lo stesso grave errore di certa classe politica italiana, che ha pensato di salvare il Nord abbandonando il Sud, privandolo di risorse, ritenendo che così il Nord si sarebbe sviluppato autonomamente e avrebbe raggiunto gli standard dei paesi nord-europei, per poi rendersi amaramente conto che la crisi ha colpito tutti, anche le regioni settentrionali, che pensavano di poterne essere risparmiate. È lo stesso drammatico errore che rischia di fare l’Europa nei confronti della Grecia, della Spagna e della stessa Italia.

Le regioni settentrionali scoprono drammaticamente ora che chi proponeva la possibilità di evitare la crisi facendo esclusivamente leva sulle forze produttive e sociali del Nord vendeva illusioni che stiamo pagando tutti a caro prezzo. Come al sistema Paese serve un Sud sviluppato, economicamente produttivo, dotato di infrastrutture e capace di valorizzare la sue tante risorse, così al sistema universitario italiano servono Università meridionali vitali, capaci di mettere a frutto tutte le capacità di formazione e ricerca, di valorizzare i giovani meridionali, di stimolare lo sviluppo del tessuto imprenditoriale e di costituire presidi di legalità e di qualità nel Mezzogiorno.

Sottolineo questi aspetti sempre e solo con spirito inclusivo e collaborativo, non certo per chiedere assistenza o peggio ancora assistenzialismo, e nemmeno per negare i gravi errori compiuti nel passato o ancora oggi, ma per far emergere il reale ruolo culturale, sociale ed economico dell’Università. La solidarietà tra persone, tra Istituzioni, tra Università non va fraintesa con l’assistenzialismo. È in realtà l’unica strategia capace di garantire un reale di sviluppo organico di una comunità, del Paese e dell’Europa.

Il modello che da alcuni anni si sta invece cercando di realizzare in Italia, non come esito di un progetto o di una riforma, ma attraverso un insieme di misure, prevede la sopravvivenza di poche Università pubbliche e private considerate di qualità, sulle quali concentrare le risorse e una serie di Università, prevalentemente meridionali, lasciate al loro destino di marginalità, di licealizzazione o di definitiva chiusura, per agonia. Anche le misure previste dalla programmazione triennale per favorire fusioni e federazioni (che, peraltro, prevedendo un unico Consiglio di Amministrazione, somigliano molto alle fusioni) sembrano andare in questo senso.

Un modello che sembra vagamente ispirato al sistema anglosassone, difficilmente applicabile in Italia, e non solo per la quasi totale assenza di investimenti privati nell’Università. Una scelta, questa, che considero una iattura in un Paese nel quale si è affermato un modello democratico e di qualità dell’Università, assolutamente da difendere (precisando bene che ‘democratico’ non significa ‘scadente’, ma pubblico, libero e accessibile a tutti i “capaci e meritevoli anche se privi di mezzi”, come recita l’art. 34 della nostra Costituzione).

Ricordo che negli USA a fronte di poche Università di altissimo profilo, copiosamente finanziate, nelle quali si concentrano i migliori docenti e i migliori studenti, soprattutto coloro che possono permettersi tasse costosissime, è attiva una miriade di pseudo-Università, peggiori dei nostri peggiori licei. Pochi ricordano che l’Italia, nonostante l’Università e la ricerca siano largamente sottofinanziate (1% del PIL a fronte dell’1,4% della media UE, 1,4% della Francia, 1,5% della media OCSE, e 2,7% degli USA), nonostante la spesa annua per studente (€ 9.562 contro € 12.967 della media europea) sia la più bassa dell’Occidente, nonostante il numero dei ricercatori per 1.000 abitanti sia di gran lunga inferiore (4,10) rispetto alla media dei Paesi OCSE (7,58), nonostante il rapporto numerico tra docenti e studenti sia tra i più sfavorevoli, nonostante il numero dei laureati sia tra i più bassi, ebbene, nonostante tutto ciò, l’Italia può vantare un sistema universitario (non una singola Università) tra i migliori al mondo. Inoltre, i ricercatori italiani, pur essendo in numero ridotto e dotati di fondi assai scarsi, sono al settimo posto nelle classifiche per la qualità della ricerca, producendo risultati di gran lunga migliori di quelli di paesi dotati di finanziamenti superiori. La qualità della ricerca continua a resistere, ma le prime crepe provocate dai tagli si colgono: tra 2009 e 2010 il numero di prodotti scientifici italiani ha subito un crollo del 23%, anche se questo dato è stato forse sopravvalutato e la produzione scientifica resta sempre ad alti livelli quantitativi e qualitativi. I laureati in Italia continuano ad essere, nonostante tutto, di alto profilo, tanto che le migliori Università straniere li accolgono a braccia aperte. È una vera assurdità, oltre che uno scandalo, che l’Italia, dopo aver investito risorse, energie e tempo per formare giovani ricercatori, nel momento in cui essi sono ben formati e pronti per produrre, li regali a Paesi concorrenti, che, anche grazie a queste energie intellettuali, conseguono nuovi successi nella competizione internazionale.

Sottolineo anche in questa occasione, un elemento che ho più volte, inascoltato, richiamato all’attenzione. Il ridottissimo finanziamento statale è distribuito in maniera fortemente sperequata tra le Università in rapporto al numero degli studenti, quasi che ci siano cittadini-studenti di serie A, B, C. Nel 2012 si è registrata un’oscillazione tra un massimo di € 6.050 ad un minimo di € 2.065 per studente, con un valore medio standard di € 4.218 (era di € 4.306 un paio di anni fa): la nostra Università si pone nella parte bassa della lista con € 3.523 per studente.

Se il FFO fosse ripartito, come sarebbe equo, assegnando ad ogni studente un costo standard, le Università del Sud e delle Isole riceverebbero oltre 200 milioni di euro in più, e la sola Università di Foggia oltre 7 milioni in più all’anno, mentre oggi in realtà perde 5 milioni rispetto al 2008. Dovremmo chiederci: perché il Ministero utilizza il Punto Organico, cioè il costo standard nazionale per docente (non previsto da nessuna legge), ma si resta ancora nell’indeterminatezza fumosa a proposito del costo standard per studente, pure previsto dallo stesso recente D.Lgs. 49/2012?

Il decreto 49, inoltre, fissando all’80% il rapporto massimo tra le spese per il personale e le entrate e considerando queste ultime costituite, oltre che dal FFO, anche dalle tasse studentesche, ha ratificato ed anzi accentuato questa forte sperequazione di trattamento. Basti ricordare che la media italiana delle tasse studentesche (dati 2009) è di € 982: al Nord è di oltre € 1.350, al Centro di circa € 1.000 e al Sud è di € 650. Nella nostra Università la media è ora di € 560, ancora tra le più basse d’Italia in considerazione del difficile contesto socio-economico locale, ma era di appena € 373 solo qualche anno fa, prima della revisione di cui mi son dovuto fare responsabilmente carico, chiedendo un sacrifico agli studenti e alle loro famiglie. Sacrificio che ha consentito di raddoppiare le entrate dalle tasse studentesche, che - è giusto sottolinearlo - attualmente coprono anche parte degli stipendi del personale e molte altre voci di funzionamento. Ma questo evidentemente al Governo, al Ministero, al ‘Sole 24 Ore’ non basta!

Bisogna, inoltre, considerare l’alto numero di studenti del tutto esonerati – e, sottolineo, giustamente – perché appartenenti a famiglie con basso reddito: a questi studenti esonerati – e a Foggia sono 1.600! –, che dunque non pagano un solo euro di tasse, l’Università deve ovviamente garantire gli stessi servizi, senza ricevere, né da loro né dallo Stato, alcun contributo: eppure un DPCM del 2001, mai applicato, prevede un risarcimento statale per questi mancati introiti.

Anche quest’anno, voglio sottolinearlo, la Regione Puglia ha garantito un contributo alle Università pugliesi a parziale ristoro di queste mancate entrate e non ha mai fatto mancare, in questi anni, il suo sostegno alla ricerca, anche a favore delle imprese, come dimostra la positiva esperienza dei distretti tecnologici: ritengo che anche grazie a queste scelte la Puglia abbia conosciuto risultati di tenuta e di crescita più positivi rispetto ad altre realtà del Mezzogiorno e del Paese.

Con il nuovo sistema, le Università relativamente più finanziate e con una tassazione più alta hanno ovviamente un migliore rapporto tra entrate e spese per il personale e sono considerate ‘virtuose’, mentre le Università, come quella di Foggia, che hanno subito i maggiori tagli del finanziamento statale e hanno tasse studentesche basse, sono condannate definitivamente. L’Università degli Studi di Foggia, per effetto di questo tipo di parametri, ha guadagnato il poco invidiabile primato negativo del peggiore rapporto tra entrate e spese di personale, pari all’89,16%. Mi preme ricordare che il numero dei nostri docenti in rapporto al numero degli studenti è tutt’altro che alto (circa 1/27), anzi è ancora squilibrato.

Inoltre, in questi anni, in particolare il numero dei tecnici e amministrativi si è notevolmente ridotto, sia per i pensionamenti, sia per il mancato rinnovo di contratto per circa 80 precari, sia per il comando di ben 35 unità di personale presso altre amministrazioni. Se si considera, infatti, il dato assoluto delle spese di personale dell’Università di Foggia, nel 2012, pari a € 39.502.872, si deduce che è più basso di quello di altre Università con analogo numero di studenti.

La mia, la nostra Università ha certamente una colpa: è giovane, ed ha un personale docente giovane, con una media di 40/45 anni, e quindi pochi pensionamenti. Ritenevo che questo fosse un pregio, ma devo evidentemente ricredermi!

In tali condizioni, è chiaro come la famosa competitività, la famosa concorrenza, sia fatta con armi completamente diverse. È come se un atleta di talento, che però si alleni su piste precarie, e, in più, sia appesantito con una zavorra di piombo, possa competere con un atleta ben allenato, e magari anche un bel po’ dopato, dotato di attrezzature d’ultima generazione e con ricchi sponsor alle spalle! Chiamereste questa competizione?

È evidente come i Governi succedutisi abbiano voluto costringere le Università ad un aumento generalizzato delle tasse, proseguendo in una politica di progressivo disimpegno pubblico: negli ultimi anni la tassazione studentesca in Italia è, infatti, cresciuta a dismisura. Trovo questa politica assai grave e ingiusta e intravedo il rischio di un’ulteriore fuoriuscita dalle Università di molti studenti provenienti da famiglie in difficoltà economiche.

Il Ministro Fornero in un’intervista rilasciata a Gad Lerner ha sostenuto che l’Università per tutti sia un’illusione. E all’autorevole giornalista che giustamente palesava il rischio che si tornasse all’Università d’élite, ha citato il caso di un ambasciatore il cui figlio non ha inteso proseguire gli studi universitari. Peccato che l’abbia fatto per sua scelta e non perché costretto a rinunciare agli studi universitari come saranno costretti a fare i giovani provenienti dalle famiglie in difficoltà.

Ricordo che in altri paesi europei, se si esclude il Regno Unito, dove assurdamente le tasse studentesche sono cresciute di oltre il 600% nell’ultimo decennio, raggiungendo livelli di € 15.000 e dove oggi in molti vorrebbero porre rimedio al drammatico errore compiuto dalle politiche thatcheriane, le tasse studentesche, diversamente da quello che comunemente si crede, sono molto più contenute che in Italia. Ho avuto recentemente l’opportunità di visitare, per motivi di lavoro, alcune Università tedesche nelle quali le tasse sono state fortemente ridotte o del tutto azzerate, a fronte ovviamente di massicci investimenti pubblici dello Stato Federale e dei singoli Länder, per favorire l’ulteriore crescita di giovani laureati.

Tutto questo ha poi ripercussioni dirette, non solo in tutte le attività di ricerca e di formazione, ma anche sul fronte del reclutamento e della progressione di carriera, di fatto ormai bloccati, se si escludono gli scarsi margini limitati a pochi tra i tanti ricercatori a tempo indeterminato (poco più di una decina nella nostra Università) grazie al Piano straordinario per i professori associati. In questi giorni stiamo finalmente avviando a soluzione il problema dell’assunzione dei colleghi che hanno acquisito legittimamente l’idoneità nei concorsi per professore di prima e seconda fascia banditi dalla nostra Università nel 2008, la cui presa di servizio è bloccata ormai dal 2010: una situazione assurda, che ha provocato in questi anni, e continua a provocare, ansie, frustrazioni personali, ricorsi al TAR, tensioni e conflitti interni alla comunità, alimentati anche, dispiace dirlo, da chi non perde l’occasione per operazioni demagogiche, strumentalizzando le pur comprensibili insoddisfazioni di singoli e di categorie e proponendo soluzioni che avrebbero provocato gravi danni all’intera Università.

Con la legge sulla spending review si prevede che l’Università italiana debba ulteriormente dimagrire dal punto di vista del personale docente e ricercatore, con un tetto massimo del 20% del turn over a livello nazionale. Le Università ‘non virtuose’ possono effettuare nuove assunzioni solo entro il limite del 12%. Questo significa distruggere le Università italiane, che si stanno svuotando, costringendole a ridurre drasticamente anche l’offerta formativa e le capacità di ricerca. Ma è evidente che, in questo quadro, saranno maggiormente danneggiate le Università più piccole e più giovani, poiché le grandi Università cercheranno di compensare le perdite favorendo trasferimenti da altre Università e grazie ad assunzioni effettuate con fondi esterni. Altro che investimento sui giovani e ringiovanimento delle Università (in un Paese che ha il corpo docente più anziano d’Europa, 51 anni!), mentre nel mondo è cresciuto del 40% il numero di ricercatori.

Eppure il bilancio della nostra Università è sano, in pareggio, non abbiamo debiti e disavanzi! Un documento del dott. Enrico Bondi, che ha avuto limitatissima circolazione (solo Milano Finanza ne ha parlato), ha di fatto certificato che l’Università di Foggia è rigorosissima nella gestione dei fondi, non prevedendo, di fatto, ulteriori possibili tagli superiori all’1%: da noi il rigore dei conti e l’eliminazione di ogni minimo spreco sono realtà da anni, ben prima che si introducesse la spending review. Fin dal 2008 quando cominciarono a profilarsi le difficoltà, noi abbiamo adottato misure draconiane di risparmio e di rigore, affiancate a sostanziose politiche d’investimento soprattutto nelle infrastrutture.

Un altro elemento preoccupante riguarda il numero di iscritti e, soprattutto, di nuovi immatricolati che in Italia si sta drammaticamente riducendo. Per la verità, questo problema finora non ha colpito la nostra Università che ha sostanzialmente retto, ed anzi ha accresciuto il numero degli iscritti, passato dai 10.882 del 2008 agli 11.421 del 2012, con un incremento di quasi il 5%, stabilizzando i nuovi immatricolati intorno a 2000, a fronte di circa 1.000 laureati all’anno. Mentre c’è stata una fase, tra gli anni Novanta e i primi anni del nuovo Millennio, in cui il numero di nuovi immatricolati cresceva, giungendo fino a 370.000, secondo i dati appena resi noti dalla Fondazione Agnelli, nel 2008/2009 questo è sceso sotto le 300.000 unità. L’Italia, che aveva assunto l’impegno di portare al 40% entro il 2020 i suoi laureati sul totale della popolazione attiva, con l’attuale misero 20%, è lontanissima non solo da quell’obiettivo, ma dalla media dei Paesi più sviluppati. Ma c’è un dato ancor più inquietante: in questi anni è cresciuto, di poco, il numero dei laureati complessivi, ma in realtà è cresciuto il livello dei laureati di primo livello, cioè del triennio, mentre si è ridotto il numero dei laureati magistrali, cioè quinquennali. In percentuale, in realtà, il rapporto dei laureati con almeno 5 anni è sceso al 41% del totale. Si sta realizzando, cioè uno scadimento qualitativo dei nostri laureati, con danni rilevanti per il sistema Paese. Una situazione ancor più grave per il Sud e la Capitanata, che soffre anche per la drammatica e continua perdita di giovani laureati, cioè delle migliori energie per costruire il futuro.

Infine, voglio chiaramente smentire un’altra opinione assai diffusa, spesso sostenuta da dai soliti suggeritori che trovano ampio spazio su alcuni grandi giornali, secondo cui le Università in Italia sarebbero troppe e alcune andrebbero chiuse. Falso! Il nostro Paese ha meno università per milione di abitanti rispetto a Spagna, Regno Unito, Paesi Bassi, Germania, Francia, USA.

Immaginiamo cosa sarebbe oggi Foggia e la Capitanata, un bacino territoriale che complessivamente, con le aree vicine, conta circa un milione di abitanti, senza l’Università di Foggia. Una Università, che, sia pur tra mille difficoltà, ha retto e continua il suo percorso di crescita, in una realtà che ha conosciuto in questi anni non pochi fallimenti, crisi e chiusure di strutture e imprese pubbliche e private.

Mi permetto di fornire ancora una volta alcuni dati, che richiamo spesso, perché li considero significativi. Limitandomi solo al 2010 (fonte Alma Laurea), faccio notare che il 66% dei nostri laureati è costituito da ragazze rispetto alla media italiana del 60%. Abbiamo una percentuale molto più alta della media nazionale per gli stage e i tirocini, il che dimostra un particolare nostro impegno nello stabilire contatti con il mondo del lavoro. Ma purtroppo il mercato del lavoro locale assorbe ancora poco i laureati ed anche questo dato, che non dipende certo dall’Università, contribuisce a penalizzarci nelle graduatorie. Ma ecco un elemento che a me, ogni volta, preme sottolineare, perché emblematico per comprendere il ruolo dell’Università nel processo di crescita complessiva della realtà locale. La Provincia di Foggia, prima della nascita dell’Università, aveva la percentuale più bassa d’Italia nel rapporto laureati-popolazione lavorativa. Nel corso di questi quattordici anni abbiamo riequilibrato il rapporto nella fascia dei giovani tra i 18 e i 25 anni e siamo rientrati nella media italiana. Emblematici, infine, i dati relativi alla provenienza sociale dei nostri laureati: il 34% proviene dalla classe operaia, rispetto al 24,2% dell’Italia, e ben l’84% proviene da famiglie in cui i genitori non sono laureati, sono al massimo diplomati o sono privi del tutto di un titolo di studio. Ora molti dei nostri laureati sono dottori di ricerca, professionisti, dirigenti di imprese o della pubblica amministrazione, imprenditori, ma anche ricercatori e docenti universitari. È in atto, cioè, una vera e propria rivoluzione sociale.

Anche per questo in Italia, e in particolare al Sud, si dovrebbe porre la scuola, una seria e qualificata formazione professionale, l’alta formazione universitaria, la ricerca, e, in generale, la cultura al centro di un nuovo progetto per il Paese.

 

Tra soddisfazioni e delusioni

Quella di quest’anno è la mia ultima cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico da rettore. Credo che sia facilmente immaginabile lo spirito con il quale la affronto: un misto di emozione e di orgoglio, di soddisfazione per alcuni risultati conseguiti, ma anche di amarezza e delusione per i tanti obiettivi che non è stato possibile raggiungere. Non dubito che possano essere tanti i delusi, quelli che si aspettavano di più dal mio rettorato: io stesso sono consapevole di aver potuto realizzare forse non più del 20% di quanto avrei sperato e, credo, avrei potuto fare in altre condizioni e con altre risorse. Rileggendo il mio programma elettorale mentre preparavo questa relazione, ho trovato, accanto a parecchi obiettivi raggiunti, anche tanti risultati non conseguiti o realizzati solo in parte, come ad esempio la University Press, i corsi in modalità e-learning, la formazione degli adulti, l’organizzazione di un ufficio grandi progetti, l’azienda agraria, la creazione di un Dipartimento inter-ateneo di Ingegneria, il potenziamento del Centro Linguistico di Ateneo, maggiori servizi per gli studenti e, in particolare, per i diversabili, la nascita di una associazione di laureati Unifg, di una libreria, di un cinema e di una ludoteca universitari, ed altri ancora.

Non ritengo opportuno proporre un elenco analitico delle attività svolte e degli obiettivi raggiunti nell’ultimo anno; per questo rimando ai materiali messi a disposizione, consultabili anche sul nostro sito web. Mi sembra, però, più utile indicare schematicamente solo alcuni dati, in modo da poter valutare qualcuno dei progressi conseguiti in questi anni difficili.

  • Organizzazione generale della nostra Università: dopo aver approvato il nuovo Statuto, attivo già dal 2 gennaio 2012, il nuovo assetto[1] è pienamente operativo già dal 15 giugno scorso, passando dalle precedenti 6 Facoltà, 12 Dipartimenti e 1 Centro interdipartimentale, cioè 19 strutture con relativi responsabili, segreterie, personale tecnico-amministrativo, a soli 6 Dipartimenti, cui si aggiunge la struttura di raccordo, denominata Facoltà, dei dipartimenti di area medica. Allo stesso modo, nella riorganizzazione degli Organi di Governo siamo passati, nel caso del Senato Accademico dai precedenti 38 componenti agli attuali 24, nel caso del Consiglio di Amministrazione dai precedenti 22 componenti agli attuali 10. Anche la struttura amministrativa ha conosciuto una sensibile razionalizzazione passando dalle precedenti 18 strutture centrali, alle attuali 9 aree.
  • Sedi decentrate: abbiamo dismesso tutte le quattro sedi decentrate a San Severo, Manfredonia, Lucera e Cerignola, che l’Università di Foggia aveva attivato fin dall’istituzione; attualmente le uniche sedi decentrate sono costituite dai corsi di Scienze infermieristiche attivi presso gli Ospedali di San Giovanni Rotondo, San Severo e Barletta.
  • Personale: i docenti erano 344 nel 2007, 371 nel 2008 e sono scesi a 365 nel 2012; in questo ambito particolarmente significativo è il balzo in avanti rappresentato dal numero dei ricercatori passati da 143 a 186, con un +30%: un grande, importante investimento sui giovani. Negli stessi anni il personale tecnico-amministrativo è passato da 380 unità del 2008, cui si aggiungevano circa 80 lavoratori precari, agli attuali 363, che in realtà si riducono a 328, se si considerano i 35 dipendenti comandati presso altre amministrazioni; siamo passati, cioè, nel rapporto tra docenti/TA, da 1/1,3 all’attuale 1/0,89.
  • Strutture edilizie: in questo campo si sono concentrati i nostri sforzi, poiché la situazione strutturale rappresentava, e rappresenterà ancora per alcuni mesi, il problema principale. Siamo passati da una superficie complessiva di 46.197,50 m2, con 12 strutture a 80.147,50 m2 e 21 strutture disponibili prossimamente, non appena saranno completati, tra alcuni mesi, i cantieri della nuova sede di Medicina e delle due ex palestre destinate ad Economia, cui si aggiungeranno i 15.000 m2 della Caserma Miale, appena sarà possibile acquistarla con i fondi FAS già assegnati. Per gli spazi didattici passiamo dai 5.500 posti a sedere in aula ad oltre 8.000 grazie anche alla rivisitazione del progetto iniziale del triennio biologico inizialmente pensato solo come struttura per la ricerca scientifica. Per le politiche urbanistiche finalizzate al recupero di immobili storici, tutti abbandonati e degradati, grazie alle quali si stanno restituendo nuove funzioni a pezzi di città storica, contro la logica finora prevalente dell’espansione e del consumo di territorio, l’Università di Foggia ha ottenuto la menzione d’onore della giuria del prestigioso Premio Gubbio 2012,
  • Costi di gestione: mentre gli spazi crescono e le strutture si moltiplicano e nonostante i costi energetici siano aumentati in questi anni, le spese correnti sono diminuite sensibilmente (certamente non senza disagi) da € 2.765.000 del 2008 al € 2.280.000 del 2012 con evidenti risparmi conseguiti nei consumi telefonici (passati da € 370.000 euro del 2008 a € 100.000 euro del 2012), per la pulizia degli ambienti (da € 1.700.000 nel 2008 a € 1.200.000 del 2012) e per la vigilanza (da € 285.000 euro del 2008 a € 35.000 del 2012).
  • Ricerca: si è realizzata l’anagrafe della ricerca, attualmente composta da circa 21.000 prodotti; la capacità di attrarre risorse per la ricerca ha conosciuto un progresso esaltante, passando da € 3.796.126 del 2008 a € 19.664.574 del 2012, con un incremento del 518%, che ci pone tra le Università maggiormente capaci di reperire risorse esterne in rapporto al FFO.
  • Internazionalizzazione: notevoli sono stati i progressi tra il 2008 e il 2012 in questo campo, come emerge chiaramente da alcuni dati, come il passaggio da 3 a 8 progetti, da 12 a 350 accordi di cooperazione, da 59 a 87studenti Erasmus all’anno in uscita e  da 72 a 140 in entrata.
  • Premi: ci siamo dotati di un’anagrafe dei tanti premi e riconoscimenti conseguiti dai nostri docenti a livello nazionale e internazionale: mi limito solo a citarne due recenti relativi a due nostri giovani ricercatori, Gaetano Serviddio che ha conquistato il prestigioso Catherine Pasquier Award presso l'Imperial College of London, e Claudio Zaccone nuovo Outstanding Young Scientist dell’Unione Europea delle Geoscienze (EGU); siamo giunti alla terza edizione del Premio Gianluca Montel, attribuito annualmente dalla nostra Università ai migliori 12 giovani ricercatori, 6 dei quali precari, grazie ai fondi del 5xmille.
  • Trasferimento tecnologico: siamo passati da 1 a 7 società di spin-off e da 3 a 11 brevetti.
  • Didattica: l’offerta formativa, che ha conosciuto robusti interventi di razionalizzazione è rimasta sostanzialmente stabile in questi anni, non privando i nostri studenti delle principali proposte; attualmente i corsi di studio sono 91  erano 105 nel 2008), di cui 15 di laurea magistrale e 3 a ciclo unico (11 e 3 nel 2008), 35 i master, 16 i corsi di formazione, 10 i corsi di dottorato (rispettivamente 24, 10 e 14 nel 2008). Mi preme segnalare anche l’attribuzione in questi anni della laurea ad honorem a due importanti personalità della cultura, della scienza, dell’impegno civile come Dacia Maraini e Umberto Veronesi.
  • Biblioteche: il patrimonio librario cartaceo si è arricchito di 10.000 volumi, le riviste elettroniche sono passate da 500 a 550, mentre i libri catalogati e accessibili in OPAC da 47.466 a 68.782, e i prestiti bibliotecari sono arrivati al numero di 17.612 mentre erano 7.347 nel 2008. Le postazioni in biblioteca sono passate da 300 a 325,e tra poche settimane inaugureremo la nuova Biblioteca umanistica.
  • Residenze studentesche: grazie alla Regione Puglia e all’iniziativa dell’ADiSU per la realizzazione della residenza ‘Marina Mazzei’, inaugurata lo scorso gennaio, i posti letto a Foggia sono passati, in questi anni, da 26 a 125 e diverranno presto 185 grazie alla costruzione da parte dell’Università della nuova residenza nel complesso ex Maria Cristina di Savoia, che sarà inaugurata a breve .
  • Innovazione tecnologiche: abbiamo ormai raggiunto il 100% di copertura wi-fi delle nostre strutture, così come siamo passati dal 30 al 100% di copertura nella telefonia VoIP. Siamo passati da 100 Mbps ad 1 Gbps, nell’incremento della velocità di connessione, grazie all’attivazione del nodo GARR-X. Abbiamo aderito alla rete internazionale EDUROAM e consentito la prenotazione e la verbalizzazione degli esami nonché la preimmatricolazione on-line a tutti i nostri studenti. Ma abbiamo lavorato anche sul fronte della sicurezza riducendo del 60% i rischi di incidenti di perdita di dati.
  • Merchandising: abbiamo favorito la nascita di una società cooperativa costituita da nostri studenti alla quale è stato affidato il merchandising Unifg, mettendo a disposizione una sede per il negozio, le cui attività sono state inaugurate pochi giorni fa.
  • Trasparenza e rigore etico: abbiamo dotato l’Università di un rigoroso Codice Etico e di una qualificata Commissione di Garanzia ed ora della Commissione di Disciplina e di un attivo e competente Difensore degli studenti, il dott. Domenico Addante.
  • Nel campo della disabilità per il tutorato alla pari siamo passati da 10 a 23 tutores ed abbiamo attivato i servizi online, prima non previsti.
  • Comunicazione: è stata prodotta un’intensissima attività di comunicazione, anche mediante nuovi strumenti, prima non disponibili, come il blog del rettore (con circa 750 articoli e 34.355 contatti i questi 4 anni), i profili Facebook (che conta circa 10.000 adesioni, ponendosi ai primi posti tra le varie Università in rapporto alla propria popolazione studentesca), Twitter, il canale universitario su You Tube con circa 100 video e oltre 30.000 visualizzazioni, e a brevissimo sostituiremo il sito web (che aveva comunque conosciuto, in questi anni, una crescita di oltre il 50% di visitatori unici rispetto al dato del 2008), con nuovo efficace, moderno e accattivante portale realizzato in collaborazione con il Cineca e attivo fra qualche settimana.
  • Attività culturali e sociali: è un campo nel quale si sono registrati straordinari progressi, con centinaia di iniziative, culturali, musicali, teatrali, conferenze, convegni, ecc., organizzati spesso in collaborazione con altre istituzioni e associazioni di volontariato, come emerge anche dall’altissimo numero di patrocini concessi (255 in quattro anni). Mi limito esclusivamente a ricordarne un paio di recentissime, particolarmente significative in questo contesto, come i premi di laurea per tesi dedicate al tema dell’usura con la Fondazione Buon Samaritano e l’iniziativa per i 20 anni dall’uccisione dell’imprenditore Giovanni Panunzio e poi la marcia silenziosa contro il racket promossa con Libera all’indomani delle bombe che hanno distrutto due esercizi commerciali cittadini.

 

Un legame solido con la storia di Foggia e della Capitanata

Da poco più di un mese la nostra Università, nell’ambito di un più ampio progetto di comunicazione e di predisposizione di un sistema di identità visiva, ha modificato in parte il suo logo, che in questa occasione presentiamo ufficialmente. Non si tratta solo di un’operazione di facciata ma riveste un significato profondo, come sempre nei simboli. All’immagine presente nel logo originario, presentato dal rettore Antonio Muscio nella cerimonia d’inaugurazione dell’anno accademico 1999-2000, con il profilo della città tratto dalla Reintegra dei tratturi del reggente Ettore Capecelatro (1651), abbiamo affiancato la scritta “Fogia regalis sedes inclita imperialis”, tratta dalla nota iscrizione posta sulla facciata del palatium federiciano di Foggia (i cui lavori furono avviati nel 1223), sistemata, dopo varie peripezie, sulla parete esterna del Museo Civico.

Alla rappresentazione della città, senza mura, direttamente connessa al territorio rurale circostante, indicato dai campi di grano, simbolo dell’apertura della città e della sua Università si aggiunge, cioè, una definizione di Foggia con la quale abbiamo voluto sottolineare ulteriormente il legame ancor più solido con la storia e la cultura di Foggia e della Capitanata, individuando in un momento e in un monumento particolarmente significativo, un riferimento imprescindibile. Si stabilisce, cioè, un collegamento con una fase per così dire fondativa della storia della città, alla quale si dovrebbe guardare, non per retorica e per costruire passati più o meno miti-storici, ma per affermare un bisogno di conoscenza, per riallacciare un filo spezzato, per ritrovare la capacità di progettare un nuovo futuro.

È questo solo un simbolo della nostra volontà di contribuire alla conoscenza del passato, alla valorizzazione della memoria collettiva, nella piena consapevolezza che il passato appartenga a tutti e, al tempo stesso, che non esista un solo passato buono per tutti, anche perché, lo abbiamo imparato da tempo, la storia del passato si fa sempre nel presente.

 

L’Università, il ‘granaio pubblico’ di Foggia e della Capitanata

Come ho già detto, con questa cerimonia si chiude il ciclo di inaugurazioni da me organizzate. Una conclusione del

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