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La mia relazione all'inaugurazione del DISTUM

Onorevole Ministro per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo Massimo Bray,

Presidente della Regione Nichi Vendola, Assessore Angela Barbanente, Sindaco di Foggia Gianni Mongelli, Commissario Straordinario della Provincia di Foggia Fabio Costantini,

Rettore emerito Antonio Muscio e rettore eletto Maurizio Ricci, grazie per essere qui a sottolineare una opportuna e necessaria continuità,

autorità civili e militari, cari cittadini

Cari amici e colleghi che avete accolto l’invito per il convegno odierno sui beni culturali e i paesaggi

cari colleghi docenti e tecnici-amministrativi, cari studenti

 

Abbiamo voluto cogliere l’occasione di questo importante convegno sui beni culturali per inaugurare ufficialmente la nuova sede del DISTUM, che pure utilizziamo già da tempo, avendo convissuto in questi anni con il cantiere e avendo proceduto alla ristrutturazione dell’edificio per lotti.

[DIA 2] Questo è l’esito di un progetto che ci vede impegnati fin dall’autunno del 2000, quando insieme alla Preside Franca Pinto Minerva un gruppo di otto docenti diede vita alla Facoltà di Lettere, poi arricchitasi dell’apporto di tanti altri colleghi. [DIA 3] Già dal 2000 si ritenne che il complesso degli ex Ospedali, da anni in totale stato di abbandono, potesse costituire la sede della nuova Facoltà, nel cuore della città antica, e quella scelta, fatta dall’allora rettore Antonio Muscio, fu assai lungimirante. [DIA 4] A lui e alla preside Pinto Minerva dobbiamo riconoscere il grande merito di aver avviato questo importante progetto.

[DIA 5] Abbiamo vissuto per molti anni in una condizione di grande difficoltà, sia per il degrado della struttura, sia per la non facile convivenza con alcuni servizi sanitari di grande utilità sociale, come il SERT e l’Istituto di Medicina Sociale-Alcologia, oggettivamente poco compatibili con la vita di una facoltà universitaria.

[DIA 6] Oggi, al termine dei lavori, possiamo dichiararci soddisfatti nel disporre di ampi spazi, disposti su un’area complessiva di circa m2 4.600 e su una superficie coperta di circa m2 7.000 distribuita su tre livelli, con non meno di 60 tra studi, uffici e laboratori, di 10 aule con almeno 550 posti a sedere, di luoghi di socializzazione, una biblioteca [DIA 7]  e servizi vari.

Il complesso occupa parte della città medievale e precisamente il luogo nel quale intorno alla metà del XIV secolo sorse il convento di S. Caterina. [DIA 8] Al 1586 risale la prima menzione dell’ospedale di S. Caterina, rappresentato anche nella veduta di Foggia conservata a Roma nella Biblioteca Angelica del XVI secolo. Nel 1597 l’Università (cioè il Comune) concesse il complesso all’Ordine ospedaliero, fondato da S. Giovanni di Dio, dei Fatebenefratelli, che lo resse fino al 1883. [DIA 9] Nei decenni successivi l’ospedale continuò la sua attività con il nome di Ospedale Civico e poi, dal gennaio 1903, con quello di “Ospedale Umberto I”. Il 6 dicembre 1928, Vittorio Emanuele III decretò la fusione tra l’Ospedale Umberto I e quello femminile negli “Ospedali Riuniti Vittorio Emanuele II e Umberto I”.  Negli anni ’70 l’ospedale fu trasferito presso l’attuale sede.

[DIA 10] L’organismo edilizio attuale è, dunque, l’esito dell’aggregazione di corpi di fabbrica di diverse epoche storiche a partire dall’originario convento [DIA 11-13] adiacente alla chiesa di San Giovanni di Dio (che a breve avremo in comodato dagli OORR). [DIA 14-15] Gli scavi archeologici da noi effettuati nel corso dei lavori hanno consentito non solo l’individuazione del chiostro originario, di cui si erano perse le tracce, ma anche di alcune sepolture e di varie strutture di età medievale e moderna. [DIA 16] Il secondo ampliamento, su via Fuiani, risale alla metà del XIX secolo e occupa il fossato che cingeva le mura cittadine come riscontrato dall’analisi della cartografia storica e dalle indagini geologiche. Nei primi decenni del XX secolo fu realizzato il blocco su via Manzoni in concomitanza con la nuova destinazione del complesso edilizio ad ospedale che, successivamente, portò alla realizzazione dell’edificio su largo Civitella.

Il progetto si deve agli ing. Salvatore Caputi Iambrenghi, ing. Pietro Ciammarusti (Studio C.N.C. s.s.t.p.), arch. Giovanni Vincenti e ing. Angelo Gentile (Studio Ingegneria & Servizi s.r.l.), la direzione Lavori è stata ottimamente garantita dall’ ing. Giuseppe Lupoi (Studio Speri, Roma).

L’impresa esecutrice è stata la EDIL.CO. srl (Matera), di cui ho apprezzato serietà, passione, competenza. Un grazie particolare ancora una volta all’ing. Antonio Tritto e all’ing. Gianfranco Molinario che hanno svolto la difficile funzione di RUP.

Anche in questo caso vorrei sottolineare la rapidità dei lavori, anche in considerazione della delicatezza dell’intervento condotto su un immobile storico; il contratto è stato stipulato l’8 ottobre 2008, la consegna dei lavori è avvenuta il 2 luglio del 2009, la fine dei lavori si avuta il 24 marzo del 2012 per il primo grande complesso, a sua volta ristrutturato per lotti (mentre si svolgevano con grande disagio le normali attività della Facoltà) e il 15 ottobre del 2012 per il blocco di largo Civitella.

L’importo iniziale a base d’asta era di € 7.239.895,03, ridotto a € 4.896.768,39 per effetto del ribasso del 32%; e si è consolidato infine in € 5.366.084,15 a seguito di perizia di variante del 30/6/2009. È stato realizzato per l’80,5% con fondi della Regione Puglia, che ringraziamo (accordo di programma a seguito di delibera CIPE n. 20/04 - Ripartizione delle risorse per interventi nelle aree sottoutilizzate - Rifinanziamento legge 208/1998 - Periodo 2004-2007 (legge finanziaria 2004), e per il 19,5% con fondi propri dell’Università di Foggia.

Un sentito ringraziamento va al Comune di Foggia, che ha acquisito l’immobile dagli OO.RR. e lo ha concesso in comodato gratuito all’Università, e alla stessa Azienda Ospedaliera Universitaria che ha concesso in comodato anche l’ultima porzione inizialmente non prevista, occupata dal Sevizio di Medicina Sociale, consentendoci così di disporre dell’intero complesso.

Un grazie infine a tutti i colleghi del DISTUM, e in particolare ai presidi succedutisi nelle ex Facoltà di Lettere e di Scienze della Formazione e ai direttori dei precedenti Dipartimenti, Franca Pinto Minerva, Gianni Cipriani, Isabella Loiodice, Franco De Martino e Marcello Marin, nonché al nostro attuale direttore del DISTUM Saverio Russo, con l’augurio sincero che questa sede diventi sempre di più la casa comune di una ricerca e di una didattica di qualità e una vera fucina di tante iniziative culturali.

 

La ristrutturazione di questo edificio è per più versi significativa, non solo per l’Università ma per l’intera città di Foggia, tanto che, insieme agli altri interventi finalizzati alla creazione di un vero campus urbano, è stato premiato con una menzione speciale della giuria del Premio Gubbio 2012 per i centri storici [DIA 17].

Molto pregnante la motivazione, che mi piace in parte leggervi [DIA 18]: «L'Università di Foggia, a differenza di quanto avvenuto negli anni più recenti per molte altre università italiane, ha perseguito il disegno di tenere nella città le sei sedi dipartimentali, le strutture amministrative e i servizi agli studenti: nel centro storico medievale, ma anche nelle sue immediate espansioni - la ‘Grande Foggia’ degli anni '30 - utilizzando edifici già esistenti e gradatamente abbandonati [DIA 19]: nel cuore della città medievale il Dipartimento di Studi Umanistici nel Complesso degli Ex Ospedali, e, non lontano, il Centro Linguistico di Ateneo nell'antico Palazzo Ricciardi; nella Foggia ‘moderna’ i Dipartimenti di Giurisprudenza e di Economia [DIA 20], e presto, con l'acquisizione dell'ottocentesca Ex Caserma Miale [DIA 21], il rettorato, l'amministrazione centrale e laboratori e servizi per gli studenti, che verranno estesi all'ex palestra e all'ex piscina.
 [DIA 22-23] L'ANCSA ha giustamente apprezzato la filosofia che ispira questo vasto programma, in buona parte realizzato, orientato al recupero di grandi edifici abbandonati, perseguendo un modello urbanistico inteso come un ‘campus urbano’ ben integrato nella città storica; e ha condiviso, in questo, l'impegno teso alla rivitalizzazione delle aree contermini alle sedi: la centralissima via Arpi, nella città medievale, condotta a divenire la strada della cultura e delle arti, e Piazza Italia [DIA 24], cuore della più intensa frequentazione studentesca nella città nuova».

In una Foggia tuttora largamente fondata ancora sull’economia dell’edilizia e nella quale persistono ampie zone di degrado urbanistico e sociale, l’Università contribuisce a proporre una nuova idea di città, che privilegi il rispetto della memoria, della cultura e della storia [DIA 25], attraverso il recupero e la rivitalizzazione di parti abbandonate e degradate della città, contro la bulimia del cemento e del progressivo e inarrestabile consumo di territorio. [DIA 26]

Questo intervento è parte integrante di un progetto assai più ampio che ci ha visti impegnati in questi anni e che ha portato ad un deciso potenziamento strutturale dell’Università, con investimenti, effettuati in un momento di particolare difficoltà e di drammatici tagli, di oltre 38 milioni di euro, resi possibili anche grazie a politiche di grande rigore dei conti e di eliminazione di ogni spreco e privilegio, che ci ha consentito di conservare un bilancio sano, in pareggio, senza debiti. [DIA 27]

 

Oggi inauguriamo una nuova casa delle scienze umanistiche. Lo facciamo in un momento non facile, mentre rivolgiamo il nostro pensiero preoccupato e solidale alle università della Grecia che rischiano di non poter dare inizio all’anno accademico: un preoccupante campanello d’allarme anche per l’Italia. L’Europa nata con le università, non può e non deve condannare a morte le università.

Parlare di scienze umanistiche significa affrontare anche il problema del loro ruolo nella società contemporanea, in un momento di grave crisi di queste discipline (basti pensare alla riduzione delle iscrizioni ai licei classici e alle facoltà umanistiche), e del rapporto con le scienze altre (quelle, cioè, considerate da alcuni le scienze vere).

Le domande potrebbero essere tante, a partire da una fondamentale: serve oggi la ricerca umanistica? E se serve, a chi serve? E chi può valutarla e sulla base di quali criteri?

La ricerca umanistica in Italia conta su una lunga gloriosa tradizione, rappresenta un vero primato italiano in tutti i campi, da quello filologico-letterario a quello filosofico, storico, artistico, archeologico, pedagogico, sociologico, giuridico, ecc. Anche il nostro Dipartimento ha dimostrato nella recente VQR di occupare una posizione di tutto rispetto nel panorama italiano, con alcuni settori di assoluto primato.

Non c’è dubbio che nel mondo l’Italia sia considerata una delle patrie della cultura e delle arti e degli studi umanistici. Eppure questo ampio e articolato settore scientifico è oggi fortemente penalizzato nel suo insieme. È diffuso un pregiudizio: che la ricerca coincida innanzitutto e quasi esclusivamente con le scienze cd. esatte e le tecnologie. Tale pregiudizio si concretizza in numerosi interventi di natura politica e finanziaria: dalla sempre maggiore scarsità di finanziamenti alla quasi totale esclusione dai principali progetti europei, dalla spinta sempre più forte verso strategie autonome di ricerca di finanziamenti nel settore privato, che certamente privilegia discipline più facilmente ‘monetizzabili’, alla definizione dei criteri preposti alla valutazione. Nel momento in cui le scienze umane sono rappresentate e sentite come inutili, il rischio di marginalizzazione sociale è assai forte.

[DIA 28] La contrapposizione tra le due culture, affrontata già negli anni Cinquanta da Charles Percy Snow, è, a mio parere, non solo sterile ma anche pericolosa e improduttiva, oltre ad essere una delle cause (e comunque uno degli effetti) del disagio che viviamo.

Se guardiano al passato, possiamo verificare come tutti i momenti di maggiore sviluppo della civiltà occidentale siano coincisi con quelle fasi in cui si è realizzato uno stretto legame delle scienze umane e delle scienze della natura.

Nella società della globalizzazione e delle tecnologie stiamo conoscendo un epocale rovesciamento di gerarchie. Le scienze e soprattutto le tecnologie sono dominanti, sempre più anche nei sistemi formativi. Ma le scienze umane sbaglierebbero a chiudersi in se stesse e ad auto-marginalizzarsi. [DIA 29] Dovrebbero, al contrario, sapere reagire, sia rivalutando antiche vocazioni sia scoprendone di nuove ed enfatizzando la propria specifica capacità di indagare i significati più profondi della vita, di proporre domande e tentativi di risposta, sapere indicare i ‘perché fare’ e non solo i ‘cosa’ e ‘come fare’. La complementarità è obbligata. Tocca a noi far comprendere la necessità di questa complementarità all’opinione pubblica e alla politica, soprattutto in una fase in cui pare prevalere una visione tecnocratica dell’università.

L’Università dovrebbe, infatti, avere tra le sue finalità culturali il confronto fra le discipline, fra i saperi, fra i linguaggi, la sperimentazione di innovativi ambiti multi- inter- e transdisciplinari, capaci affrontare in forma globale e unitaria la complessità. Non si tratta, cioè, di intendere l’interdisciplinarità come mera sommatoria di specialismi, ma come reale collaborazione e integrazione. Tale confronto serrato appare un passaggio necessario al fine di costruire un approccio epistemologico e un linguaggio comune fra le diverse discipline, a partire da un riconoscimento chiaro della pari dignità fra i saperi tecnico-scientifici, le scienze della natura e le scienze umane.

Una delle peculiarità dell’attuale situazione degli studi è costituita dall’affermarsi di specialismi che spesso finiscono per considerarsi non già come parte di un insieme più complesso, ma essi stessi come un intero. Gli specialismi, che – è quasi ovvio sottolinearlo - sono assolutamente necessari per il progresso delle conoscenze, soprattutto per la comprensione in profondità di aspetti specifici, risultano sicuramente meno utili se si isolano attribuendosi surrettiziamente una patente di totalità.

Il dibattito scientifico più maturo, infatti, individua oggi tutti i limiti di tale atteggiamento riduzionistico, privilegiando la globalità degli approcci, degli strumenti analitici, delle fonti, dei dati per tentare di giungere alla comprensione di oggetti e di fenomeni complessi.

Facciamo l’esempio dei beni culturali, uno dei campi privilegiati per sperimentare forme di complementarità tra i saperi. Da anni al centro del dibattito c’è tema del rapporto tra economia e cultura. Si ripete spesso che il patrimonio culturale è anche una risorsa economica, sostenendo quasi una ovvietà credo condivisa da tutti. Questa affermazione è però insufficiente e impropria, se contrapposta al valore immateriale della cultura in sé.

[DIA 30] La valorizzazione del patrimonio culturale, infatti, può e deve certamente contribuire ad accrescere anche il livello economico di una comunità, ma le ricadute che un museo, un parco archeologico, un archivio o una biblioteca possono avere sono diverse e ben più ‘remunerative’ rispetto ad una malintesa visione mercantilistica del bene culturale, come hanno compreso anche i più avvertiti economisti della cultura. Bisognerebbe, al contrario, valutare ed anche quantificare i vantaggi in termini di miglioramento del benessere e della qualità della vita, intesa come crescita culturale e civile, come affermazione di una matura ‘coscienza di luogo’, come stimolo alla conoscenza della propria storia, come consolidamento dell’identità culturale della comunità locale, come apertura verso orizzonti culturali altri.

Questo deve essere un impegno dell’intero mondo delle scienze umane, trasformando la propria attività di conoscenza in un’operazione culturale collettiva, cioè un impegno civile. Dobbiamo tornare a comunicare, a saper raccontare, ad esprimere una vera passione comunicativa e civile, interrompendo la lunga separazione fra ricerca e pubblico, senza cadere necessariamente nel volgare uso pubblico della storia.

[DIA 31] Abbandonando la bieca retorica della cultura e del patrimonio culturale sempre sbandierato nei media e nei discorsi di certa politica, è necessario affermare a livello sociale la convinzione che l’investimento in cultura è uno dei capisaldi per salvare il nostro Paese, come più volte hanno sottolineato tanto il ministro Bray quanto il presidente Vendola. Ma il patrimonio culturale – voglio ribadirlo ancora una volta - non appartiene né agli studiosi né ai professionisti della tutela: è un bene comune. [DIA 32] Il patrimonio cultuale è, come ci insegna da anni Salvatore Settis «un dato essenziale dell’essere Italiani, che, come i gesti e la lingua, si trasmette e si radica senza che ce ne accorgiamo». Lo respiriamo, è intorno a noi, fa parte di noi. [DIA 33] Ancor di più il paesaggio, vero e proprio museo vivente dell’evoluzione culturale, palinsesto di paesaggi stratificati, patrimonio di immagini condivise da una comunità.

L’Università nel suo insieme e le scienze umane, in particolare, possono e devono, cioè, contribuire alla consapevolezza della società locale attraverso la conoscenza e valorizzazione dei beni e delle peculiarità territoriali, nella costruzione di una memoria collettiva [DIA 34]: operazioni nelle quali non bastano le tecniche e le tecnologie, per quanto innovative, ma servono strumenti metodologici e culturali, che peraltro costituiscono una peculiarità tutta italiana.

 

[DIA 35] Evito di entrare in questo momento nel merito delle questioni specifiche che affronteremo nel convegno odierno e nella seconda giornata che terremo il prossimo 22 novembre sui temi della gestione e della fruizione. Rinvio in particolare alla relazione che fra poco terranno D. Manacorda e M. Montella. Ma, approfittando in particolare della presenza del ministro Bray, che ringrazio per essere oggi qui a Foggia con noi e soprattutto per lo straordinario impegno, la sensibilità culturale e la grande capacità di ascolto e di confronto con cui sta svolgendo il suo difficile compito, mi preme elencare telegraficamente 8 punti che ritengo fondamentali per avviare un processo di reale innovazione nel campo dei beni culturali:

  1. Il mondo dei beni culturali si è andato rinnovando radicalmente nell’ultimo mezzo secolo tanto che la stessa idea di bene culturale si è profondamente modificata, ma questo cambiamento ha intaccato solo marginalmente il modello della tutela. Posizioni meramente conservatrici (anche quando ammantate di feroce critica alla situazione attuale) sono non solo inattuali ma anche destinate al fallimento, perché incapaci di affrontare il nodo culturale e metodologico del ruolo del patrimonio culturale e paesaggistico nella società attuale. Il dovere irrinunciabile di conservare il nostro patrimonio andrebbe attuato con la capacità dell’innovazione e il coraggio del cambiamento. Il MiBAC dovrebbe recuperare la sua originaria natura tecnico-scientifica, sburocratizzandosi e superando l’attuale situazione di confusione e di sovrapposizione di competenze. Ma ribadisco: il problema reale non è (soltanto) economico ed organizzativo quanto metodologico, culturale e politico.
  2. Bisognerebbe sviluppare una visione olistica e contestuale dei BC. La nuova parola d’ordine dovrebbe essere, quindi, globalità: e, prima di tutto, globalità di approccio, di fonti, di strumenti, di competenze, di sensibilità. La seconda parola d’ordine è paesaggio. Dovremmo superare la separazione tra categorie di beni, coinvolgere più competenze in equipe miste, abbandonare assurde e anacronistiche divisioni cronologiche e disciplinari, queste sì accademiche. L’elemento comune, il tessuto connettivo, il filo che lega tutti gli elementi del patrimonio culturale è il paesaggio.
  3. Bisognerebbe separare la gestione dal coordinamento/controllo/valutazione, e soprattutto superare l’assurda concezione ‘proprietaria’, oggi prevalente.
  4. Andrebbe istituita presso il MiBAC un’agenzia indipendente per la valutazione della qualità della tutela dei beni culturali e paesaggistici, capace di indicare parametri, standard qualitativi, protocolli, di premiare e incentivare le buone prassi, di valorizzare l’ottimo lavoro di tutela e di ricerca svolto da numerosi funzionari e, quando necessario, di censurare, sulla base di dati certi e di valutazioni rigorose, pratiche e operazioni di basso profilo.
  5. Bisognerebbe ripensare completamente il rapporto tra MiBAC e MIUR, uscendo definitivamente da una logica di contrapposizione e avviandoci finalmente verso una visione di sistema statale integrato. Si potrebbe dar vita, anche a livello sperimentale in alcune regioni (la Puglia?) a unità operative miste delle Soprintendenze, delle Università, delle Regioni e degli Enti locali, veri e propri policlinici dei beni culturali e del paesaggio’, aperti all’innovazione metodologica e tecnologica.
  6. Anche il mondo della formazione universitaria avrebbe bisogno di un profondo ripensamento nel campo dei beni culturali, ponendo fine alla formazione di professionalità improbabili, rendendo più omogenei a livello nazionale i percorsi formativi, eliminando l’eccesso di frammentazione e di duplicazione di corsi di studio di primo e secondo livello e delle Scuole di Specializzazione, dando vita a corsi interateneo di maggiore qualità, sviluppando una collaborazione organica con le Soprintendenze (esattamente come avviene in campo medico nelle Aziende Ospedaliere Universitarie).
  7. Bisognerebbe introdurre norme di garanzia per i liberi professionisti, al momento privi di regole e forme di riconoscimento professionale, costretti non solo al precariato, a condizioni lavorative proibitive e a compensi indegni ma anche a forme di sudditanza, di ricatto, di frustrazione, di scippo sistematico della proprietà intellettuale del lavoro.
  8. Si dovrebbe saper garantire e favorire l’accesso ai dati e la loro libera circolazione, contro una concezione proprietaria fondata su norme tanto assurde quanto anacronistiche nell’età del web, dell’open access e degli open data.

 

[Dia 36] Potrei, dunque, concludere queste mie disorganiche riflessioni, auspicando che le scienze umane aiutino a stimolare domande al patrimonio culturale e paesaggistico e a tentare possibili risposte. Parafrasando le parole del Marco Polo di Calvino potremmo affermare che «di un paesaggio [una città] non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. – O la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere ….».

È questo un obiettivo che può e deve riguardare Foggia, la Capitanata, la Puglia, il Sud, l’intero Paese, che solo nella cultura, nella formazione, nella valorizzazione dei patrimoni culturali e dei paesaggi può costruire un futuro migliore.


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