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Le opportunità della Convenzione di Faro

Dopo lunghe attese e numerosi rinvii, quando anche i più accesi sostenitori, come chi scrive, stavano per perdere la speranza, la ratifica della “Convenzione quadro del Consiglio d’Europa” sul valore del patrimonio culturale per la società  da parte del Parlamento italiano è finalmente arrivata. Ci sono voluti ben quindici anni dall’ormai lontano 2005 quando fu presentata a Faro, in Portogallo, durante i lavori del Consiglio d’Europa, e ben sette anni dalla sottoscrizione da parte del Governo nel 2013.

Sono intervenuto più volte su questo tema anche in questo blog , per cui ritengo inutile tornare a indicare le notevoli novità che questa Convenzione introduce. Mi limito solo a ricordare che essa fu concepita all’indomani dei drammatici conflitti nell’area balcanica, quando oltre alle ‘pulizie etniche’, agli stupri di massa e alle stragi, anche il patrimonio culturale fu elemento di scontro e fu oggetto di distruzioni sistematiche.

Il Consiglio d’Europa (non il Parlamento europeo, come in tante occasioni sento erroneamente dire anche da chi, come certi politici, queste cose dovrebbe conoscerle: ricordo, solo per i meno esperti, che il Consiglio d’Europa  non ha nulla a che fare con l’Unione Europea, che è composto da 47 stati, compresi paesi come l’Albania, la Russia, la Turchia o il Regno Unito che non sono nella UE), volle allora elaborare una Convenzione che impegnasse gli stati aderenti a non usare il patrimonio culturale come una clava, a non annientare le manifestazioni culturali espressioni di altre civiltà, favorendo al contrario una visione pacifica, pluralista, inclusiva e rispettosa delle diversità, fondata sul “rispetto dei diritti dell’uomo, della democrazia e dello stato di diritto”.

Nei vari articoli si insiste sul diritto garantito a ogni persona “nel rispetto dei diritti e delle libertà altrui, ad interessarsi al patrimonio culturale di propria scelta, in quanto parte del diritto a partecipare liberamente alla vita culturale” e, soprattutto, sulla partecipazione attiva dei cittadini. Per quel che riguarda l’Italia, che vanta un’importante tradizione giuridica e grandi competenze nel campo della tutela, la Convenzione di Faro potrà arricchire tale patrimonio favorendo maggiormente l’iniziativa dal basso, sollecitando una sorta di ‘tutela sociale’, secondo lo spirito e la lettera dell’articolo 9 della nostra Costituzione, che non a caso attribuisce alla Repubblica, intesa come l’insieme delle istituzioni pubbliche e della comunità dei cittadini, il compito della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale, anche attraverso la promozione della cultura e della ricerca.

Mi preme, in particolare, riservare, in questa occasione, qualche cenno a certe reazioni eccessive, successive alla ratifica da parte di alcune forze politiche di area sovranista, di certi organi di stampa e anche di alcuni intellettuali di destra. La loro critica si è concentrata sul timore di un presunto occultamento delle manifestazioni della cultura italiana, a partire dalla copertura delle nudità di statue e affreschi o dalla scomparsa di simboli religiosi, per non offendere sensibilità, culture e religioni altrui, in particolare quelle islamiche. Onestamente ritengo questa un’autentica, strumentale, stupidaggine, che ho sentito ripetere anche in occasione di una mia audizione in Commissione Esteri del Senato, dopo i miei tentativi di illustrare tutti i vantaggi che anche l’Italia potrebbe avere da questa Convenzione per rendere il patrimonio culturale più vicino ai cittadini e alle comunità locali, ponendo rimedio a quella separazione che nel corso del tempo è andata crescendo proprio tra i beni culturali e i loro legittimi ‘proprietari’, appunto i cittadini (e non i professori o i funzionari della tutela, che svolgono una funzione straordinariamente importante ma che non sono, come a volte ritengono, i detentori del patrimonio).

Mai, in nessuno degli articoli, la Convenzione prefigura un novello Danielle Ricciarelli da Volterra, il celebre Braghettone che ricoprì le nudità della Cappella Sistina! Il rispetto delle culture altrui non significa affatto la rinuncia alla propria cultura, e questo principio la Convenzione di Faro lo sottolinea a chiare lettere. Ben diverso è il caso, giustamente condannato, di un uso strumentale e violento del patrimonio culturale, brandito contro qualcuno, invece di essere un elemento di pace e di conoscenza reciproca, rispettoso delle diversità, per “facilitare la coesistenza pacifica, attraverso la promozione della fiducia e della comprensione reciproca, in un’ottica di risoluzione e di prevenzione dei conflitti” (art. 7, c).

Volendo indicare un esempio recente di uso strumentale del patrimonio culturale, in aperto conflitto con i principi della Convenzione di Faro, potrei citare la decisione del presidente turco Erdogan (il cui paese fa peraltro parte del Consiglio d’Europa) di riportare alla sua esclusiva funzione di moschea Santa Sofia, nata come chiesa cristiana e poi trasformata da Atatürk in un luogo della cultura, complesso e stratificato, rappresentativo di varie culture e religioni.

Sgombriamo il campo da un altro timore: mai la Convenzione prevede una riduzione delle tutele del patrimonio sancite da leggi nazionali: l’Italia semmai potrà arricchire i propri strumenti di tutela grazie a un maggiore coinvolgimento dei cittadini, dei professionisti dei beni culturali, delle associazioni e delle varie espressioni della società civile.

Se rischi ci sono, sono di altra natura e mi limito qui a indicarne un paio.

Il primo riguarda l’effettiva attuazione dei suoi principi, che potrebbero restare solo sulla carta. Come ha sottolineato un grande economista della cultura recentemente scomparso, Massimo Montella, è possibile che anche per questa convenzione europea si verifichi quanto accaduto per altri importanti documenti (si pensi alla Convenzione sul Paesaggio: ad oggi sono solo ancora quattro le regioni che si sono dotate di un moderno Piano Paesaggistico!), e cioè che i principi affermati vengano considerati quasi ‘semplici parole in libertà’ senza alcuna reale ricaduta nella legislazione nazionale e nell’organizzazione della tutela. Insomma, una volta ratificata, la Convenzione di Faro va applicata.

Un secondo rischio, non meno grave, è in agguato: è quello del ‘politically correct’, cioè quell’orientamento ideologico che confonde il doveroso rispetto verso tutte le persone e le tante differenze con i formalismi esasperati, le sdolcinate ipocrisie, il conformismo linguistico (e non solo), puntando, cioè, a edulcorare anche realtà difficili e sgradevoli e ignorare i conflitti. L’attenzione ai territori e ai luoghi, alle tradizioni e alle specificità, può sfociare, se non controllata e opportunamente mediata, in localismo, in campanilismo, sollecitando chiusure e contrapposizioni, non senza fraintendimenti del concetto di identità, da anni di gran moda e spesso trasformato in un’arma identitaria usata per colpire ogni forma di alterità. Per questo ritengo che sia un grave errore delle forze politiche e culturali progressiste e democratiche lasciare l’egemonia del tema delle identità alle componenti conservatrici o addirittura a quelle reazionarie. È un rischio oggi più che mai attuale, in un momento in cui si assiste all’emergere di populismi, nazionalismi e sovranismi. Si pensi, ad esempio, alla fortuna dei Celti alcuni anni fa nelle regioni del Nord, anche mediante ingenti risorse attribuite a ricerche storiche e archeologiche dedicate a quelle fasi e ai siti legati a quella civiltà, a scapito di altre. L’uso e l’abuso della storia e del patrimonio culturale rappresentano una costante, per cui è necessario tenere sempre alta la guardia. Come ebbi a dire a esponenti della Lega e di Fratelli d’Italia in occasione di quella audizione parlamentare, ciò che temo è semmai proprio una lettura sovranista della Convenzione di Faro. Un motivo in più per battersi per una sua applicazione in senso democratico, inclusivo, partecipato.

Pubblicato in https://www.huffingtonpost.it/entry/le-opportunita-della-convenzione-di-faro_it_5f6f4f72c5b6cdc24c19c315?utm_hp_ref=it-blog


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