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Scavare o non scavare? Questo è il problema

«Vi è chi ritiene, specie fra gli storici dell’arte, che non bisognerebbe più scavare, ma solo tutelare e conoscere quanto è già in luce. È come ingiungere ad una persona: “riordina la tua memoria e non imparare di più”. Conservare una biblioteca significa studiarvi, riordinarla, incrementarla e non solo spolverarne gli scaffali. Lo scavo è la necessaria premessa di ogni studio e restauro di quanto emerge ed è noto. (…) L’indagine è come una smagliatura che avanza e non si sa dove si fermerà. Smettere di scavare significherebbe smettere di conoscere in modo attuale il mondo materiale …». Così scriveva un bel po’ di anni fa Andrea Carandini nel suo insuperato manuale Storie dalla terra (la prima edizione è dell’ormai lontano 1981). Possiamo oggi confermare questa posizione? In buona parte sì, ma in parte no. Penso che anche l’autore del primo manuale di scavo stratigrafico italiano sarebbe d’accordo. Non c’è dubbio, infatti, che scavi condotti con metodi, tecniche e tecnologie moderne possano portare all’acquisizione di dati e informazioni prima impensabili, consentendo anche di rivedere precedenti interpretazioni. Per tale motivo è sempre necessario lasciare agli archeologi del futuro, che disporranno di mezzi e conoscenze oggi per noi inimmaginabili, porzioni di un sito che si sta indagando. Ma soprattutto sarebbe opportuno privilegiare, oltre ovviamente agli scavi di emergenza e a quelli preventivi, solo gli scavi di ricerca, condotti nell’ambito di progetti di ampio respiro, sistematici, multidisciplinari, che si pongano fin da subito, oltre all’impegno di tutela (valorizzando quando possibile e ritenuto utile o ricoprendo quando non fosse possibile o lo si ritenesse superfluo) anche l’obiettivo della pubblicazione e della comunicazione a vari livelli (scientifici e divulgativi) dei risultati raggiunti. Basta con la moltiplicazione di scavetti qui e là, spesso condannati a restare senza nemmeno una riga scritta, una fotografia, un disegno. Basta con scavi che sembrano più finalizzati alla scoperta sensazionale o ad alimentare l’ego dell’archeologo, anche in siti che necessitano di interventi di manutenzione programmata, di documentazione, di restauri, di analisi e interpretazione del pregresso. Abbiamo accumulato (tutti) montagne di inedito. Soprattutto si consenta l’accesso alla documentazione di scavi condotti in anni e decenni (se non secoli) lontani. Quante volte studenti laureandi, dottorandi, giovani (e non più giovani) ricercatori si sentono dire che non possono occuparsi dello studio di scavi eseguiti anche molti decenni fa perché sono ancora in corso di studio da parte di chi, magari ormai in pensione, li ha diretti quando era un giovane funzionario o un professore agli inizi della carriera? Dopo 5 (al massimo 10) anni dalla conclusione di uno scavo l’accesso ai dati e ai materiali dovrebbe essere garantito a chiunque volesse studiarne le stratigrafie, i monumenti, i reperti. Penso che un archeologo possa essere non solo felice ma anche onorato della scelta di un giovane di studiare e pubblicare suoi vecchi scavi, e ancor più felice se la documentazione allora prodotta si rivelasse in grado di garantire lo studio e anche una revisione dei risultati raggiunti. Si metta mano alle quantità enormi di dati e di materiali inediti prodotti dagli interventi di archeologia preventiva, consideri la pubblicazione parte integrante del progetto. Si aprano gli archivi, i magazzini e i laboratori (delle soprintendenze, dei musei, delle università), si condividano e si rendano liberi i dati, si facciano progredire la ricerca e la conoscenza del patrimonio archeologico. Ecco un bel progetto il PNRR. Ecco un campo nel quale Ministero della Cultura, università e professionisti potrebbero lavorare insieme. Pubblicato su Archeologia Viva, 217 gen.feb 2023, p. 80
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