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Enrico Zanini: “La mappa della discordia”
“La mappa della discordia”
Erano molti mesi che non scrivevo una rubrichetta domenicale su questa pagina, ma il dibattito che si sta sviluppando in questi giorni sulla annunciata “fase 2” della riforma del MiBACT intrapresa a tappe dal ministro Franceschini mi ha stimolato qualche riflessione.
I fatti sono noti: Franceschini ha presentato e si propone di far approvare in consiglio dei ministri entro la fine di gennaio una riorganizzazione degli organi periferici (e in qualche misura anche di quelli centrali) del ministero che dirige. Non si tratta di una riorganizzazione di piccolo momento: le soprintendenze archeologiche, artistiche e del paesaggio vengono riunificate in organismi unitari e articolati al loro interno; al tempo stesso il loro numero viene più che raddoppiato, riducendo l'estensione della loro competenza territoriale e viene ulteriormente portata avanti la creazione di un sistema museale nazionale, con l'istituzione di nuovi musei autonomi che si vanno ad aggiungere a quelli già individuati e la cui designazione dei nuovi direttori ha suscitato un'altra grande discussione l'estate scorsa.
Della questione musei non mi occuperò: in linea di principio, l'idea di rendere i grandi musei e le grandi aree archeologiche istituzioni autonome vocate essenzialmente alla comunicazione (ovvero a costituire una nuova forma di interfaccia tra la società contemporanea complessa e il suo passato – o meglio i suoi tanti e diversi passati) mi pare buona. Sulle modalità di selezione dei direttori si può discutere per settimane, ma l'unica cosa che andrà realmente fatta sarà quella di andare a verificare, magari un anno dopo la loro entrata in carica, come l'operazione abbia funzionato. E, nel caso, capire se ha funzionato/non funzionato la cosa nel suo complesso o i singoli designati a gestirla.
La nuova mappa delle soprintendenze uniche mi pare invece un argomento più interessante, perché fa due cose su cui non solo sono d'accordo, ma vedo anche con difficoltà come, in linea di principio almeno, non si possa essere d'accordo.
Riunificare le soprintendenze (mantenendo ovviamente le articolazioni di competenze al loro interno e salvaguardando e incentivando le tante e grandi professionalità umane che dietro quelle competenze burocratiche ci sono) va semplicemente nella direzione della presa d'atto di quanto e come è cambiato negli ultimi decenni la nostra idea di patrimonio culturale. L'idea che il patrimonio culturale non sia fatto di “cose” distinte, ma di relazioni tra le cose e, soprattutto, di relazioni tra noi contemporanei con il nostro passato è, credo, comunemente accettata. Se non altro perché è alla base di quella riformulazione della nostra legislazione in materia che data già al 2004 e che si chiama per l'appunto “Codice dei beni culturali e del paesaggio”.
Nulla di straordinariamente innovativo e dirompente. Semmai il contrario: una presa d'atto forse anche tardiva – dal 2004 ci sono stati cambiamenti epocali, in quell'anno nasceva per l'appunto FB e i social media cambiavano per sempre la nostra percezione della comunicazione – delle implicazioni operative di una legge molto bizzarra. Una legge che ha una condivisibilissima parte di principi generali e che poi li “appoggia” operativamente su una legge anacronistica come la 1089/1939, il cui testo costituisce in buona sostanza il nocciolo duro della catena operativa del nuovo Codice.
Ma dal 2004, se allarghiamo il nostro sguardo un po' oltre i nostri confini nazionali e disciplinari, sono cambiate anche molte altre cose. L'approccio “olistico” alla conoscenza è una realtà consolidata in tutti i campi del sapere e dell'operatività che da quel sapere consegue: lo si pratica ormai abitualmente, per esempio, negli ospedali, in cui al centro delle attività non c'è più un paziente “spezzettato” fra diversi specialismi/specialisti (tu ti occupi della testa e io mi occupo del fegato), ma c'è un paziente tutto intero, intorno a cui si riuniscono competenze diverse, anche molto diverse, fra loro.
Sarà perché sono laureato in storia dell'arte bizantina, dottore di ricerca in archeologia e scrivo cose che vengono spesso pubblicate su riviste storiche, ma a me questa idea dell'iperspecializzazione proprio non mi va giù. Penso, piuttosto, che nelle nuove condizioni in cui ci troviamo a operare, di una vera e grande specializzazione abbiamo bisogno: abbiamo bisogno di essere (e di essere capaci di formare) specialisti del patrimonio culturale nel suo insieme. Specialisti nel comprenderne l'unitarietà e la complessità delle componenti e delle relazioni interne; specialisti nel saperle tutelare nel suo insieme e specialisti nel saperle comunicare nella loro ricchezza. Specialisti nel sapere quando e come attivare superspecialisti delle diverse aree della ricerca: quando chiamare a consulto scavatori provetti e archeometristi raffinati, storici dell'arte e iconografi, storici ed etnografi, studiosi del paesaggio e degli archivi.
E non sto parlando in linea teorica: sto semplicemente descrivendo un pezzo del lavoro quotidiano di tutti noi. Nel caso specifico a partire da uno straordinario mosaico pavimentale tardoantico di cui mi sto occupando insieme al mio gruppo di lavoro e la cui comprensione, tutela, valorizzazione richiede di attivare e coordinare tutte quelle competenze e molte altre ancora.
Per questo non posso che vedere con grande gioia l'idea di un soprintendente con cui io possa dialogare in maniera unitaria di tutto questo. E non mi interessa moltissimo se si è formato in una facoltà oppure in un altra: mi interessa molto di più quella che è stata la sua evoluzione professionale nel fare quel difficilissimo ed entusiasmante mestiere che è occuparsi del nostro patrimonio culturale nel suo complesso.
Per lo stesso motivo, non posso che essere contento se le soprintendenze avranno ambiti di competenza territorialmente più limitati. Mi sono sempre occupato professionalmente di confini nel mondo antico e postantico e non posso far finta di non sapere che ogni confine è per definizione ambiguo e destinato a separare realtà simili e ad accorpare invece realtà molto differenti tra loro.
Ma, proprio per questo, preferisco di molto realtà più piccole, che hanno una probabilità statistica maggiore ad essere tendenzialmente omogenee: omogenee rispetto al passato e, soprattutto, omogenee rispetto al presente. Perché non è così importante se un territorio fosse in epoca romana più o meno connesso con un altro, perché, magari, prima o dopo sarà stato più o meno separato dallo stesso altro territorio. E' assai più importante che i territori siano oggi, il più possibile, socialmente, culturalmente, economicamente omogenei. Perché è di contemporaneo che parliamo, sempre, quando parliamo di passato.
Soprintendenze accorpate, piccole e diffuse mi sembrano in buona sostanza uno strumento che si adatta molto bene all'immagine molteplice, locale e globale della nostra società contemporanea. Prevederle mi sembra un passo, importante, nella direzione giusta.
Un passo non privo di difficoltà. Ci saranno difficoltà – grandi – di tipo organizzativo e operativo e continueranno ad esserci tutte le grandi e piccole difficoltà originate dal permanere in vigore di quella legge anacronistica del 1939.
Ma ci saranno anche grandi e nuove opportunità. Non credo che dobbiamo avere paura del futuro e non credo nemmeno che ci sia in corso un disegno consapevole per “assassinare” l'archeologia italiana.
Di una sola cosa ho davvero paura e cerco di spiegarlo, tutti i giorni, ai “miei” studenti a lezione e ai miei colleghi nelle nostre riunioni. Ho paura della palude in cui siamo precipitati per una serie di ragioni storicamente date e dalla quale dobbiamo trovare la forza, la capacità e le idee per venire fuori.
Mai come oggi l'Italia ha avuto bisogno di più archeologia e mai come oggi gli archeologi italiani (in tutte le diverse articolazioni di un insieme grande e complesso al suo interno) hanno avuto le capacità, gli strumenti e le condizioni oggettive per rispondere a questo bisogno.
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