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Marco Valenti, presentazione di 'Patrimonio al futuro' a Poggibonsi
Il libro di Giuliano, giustamente conciso e non retorico, scritto affinché possa davvero essere letto agilmente da tutti, è un atto di amore verso il patrimonio (ed il cuore in copertina lo esplicita bene) ma anche verso la collettività; perché il patrimonio è davvero di tutti e non è una frase fatta.
Costituisce un atto di responsabilità basato su convinzioni e idee maturate da chi ha sempre lavorato sul patrimonio; ma non rappresenta una ricetta di sicuro e garantito successo; non appartiene allo stile di Giuliano, sempre pronto al dibattito e a includere tutti; bensì una proposta di confronto aperto e progettazione, dove sono ben accette anche le opinioni dei commentatori (come già ci sono più volte state) che distruggono le idee innovative per partito preso, ergendosi a vestali del sacro fuoco della conservazione.
Giuliano esce allo scoperto e come ha detto, ma anche sempre fatto, ci mette la faccia per sconfiggere da una parte la rassegnazione sulle vicende dei beni culturali e del paesaggio e dall'altra la difesa di piccole rendite di posizione.
Il patrimonio deve uscire dalla paralisi e dalle influenze di conservatorismo e benaltrismo che si scatenano ad ogni proposta innovativa peraltro non nell'interesse privato ma di quello pubblico.
Vi ricordo in proposito le astiose polemiche alla proposta di ridare al Colosseo il pavimento che la storia gli ha lasciato e che gli archeologi hanno in passato rimosso; idea tesa a sfatare finalmente il mito di un "approccio feticista all’archeologia che vieta di intervenire sui resti antichi" come dichiarato da Daniele Manacorda.
Se uscire dalla paralisi del conservatorismo “sempre e comunque” dovrebbe essere una preoccupazione alla base del concetto di patrimonio, lo è a maggior ragione oggi, in anni di mortificante crisi economica e sociale, di valori e di etica. Una crisi che colpisce il nostro paese ma anche chi si occupa per professione di beni culturali.
Il patrimonio deve essere infatti pubblico, accessibile, comprensibile, a beneficio di tutti e fonte di economia. Bisogna avere spirito di iniziativa a costo di stravolgere tutto.
Io personalmente non voglio più sentire la banalità che è il nostro petrolio; infatti questo petrolio, se lo è, va saputo estrarre, conservare, raffinare e proporre sul mercato con un suo appeal.
La cultura del fare per davvero; e soprattutto del fare bene.
Come ha detto in una recente presentazione siciliana Mariarita Sgarlata, Giuliano ci risparmia l’ennesima retorica sui beni culturali, e si pone come obiettivo traghettare il patrimonio acquisito verso il futuro, in una nuova ottica di tutela, non del proprio interesse privato, ma di quello della collettività, opponendosi al degrado e al saccheggio dei beni comuni.
Ed io aggiungo che l'intero libro è pervaso dal concetto che la separazione tra cittadini e patrimonio culturale è il vero nodo da sciogliere.
I beni culturali infatti, scrive Giuliano, devono uscire dalla logica della “chiacchiere salottiere e polemiche tra schieramenti contrapposti” che creano (cito ancora) il “divorzio tra cittadini e patrimonio”, come se l’archeologo fosse detentore di chissà quale verità incomprensibile al prossimo, mentre noi abbiamo in realtà una funzione sociale.
La visione elitaria di un patrimonio appannaggio di una piccola élite di studiosi è uno dei maggiori problemi che abbiamo.
Come risolverlo?
La riforma Franceschini ha avviato, non senza le prevedibili e immancabili contumelie, una rivoluzione radicale in tal senso; cercando di riportare gli stessi cittadini a riscoprire il valore dei beni culturali del nostro Paese e avere un ruolo attivo nella loro tutela, valorizzazione e apprezzamento.
Per far questo si devono compiere dei passi ben precisi e ritengo fondamentale proprio il recupero delle persone richiamato nelle pagine del libro, ripartendo dalla comunicazione di base (dall'impostazione dei musei sino alle didascalie e ai testi dei pannelli), ripudiando l’idea dei musei come spazi in cui una “casta” parla e agisce in modo da tenere lontani i visitatori.
O si crea nella popolazione quelli che io chiamo “il bisogno di Archeologia”, di un “patrimonio che parla” e “condiviso se non partecipato” o si apriranno due strade pericolosissime.
- La prima è la fine della cultura umanistica (già massacrata da anni di riforme universitarie tremende, dove contano solo i numeri e quelle discipline o scienze dure votate all'immediata produzione di profitto)... evidentemente insegnare a ragionare e creare delle coscienze risulta scomodo... ma non è un bene certo per la società.
- La seconda invece è la mancanza di un rapporto tra archeologia, pianificazione e valorizzazione, in cui l’archeologo e l’operatore dei beni culturali in generale, siano figure essenziali in grado di fornire una chiave di lettura storica dell’evoluzione del paesaggio. Noi infatti dovremmo avere un
chiaro ruolo sociale ed essere il tramite tra racconto del passato e progettazione del futuro.
Quindi perderemo definitivamente il treno della valorizzazione, attrattiva e nel rispetto-divulgazione delle storie insite nel patrimonio. Cioè del nostro ruolo nel narrare.
Il nodo essenziale da risolvere è dunque farsi capire davvero da tutti e non parlare in codice. Per esempio, il museo a livello mondiale (nella sua più larga accezione: dal museo tout cour alle aree archeologiche ai musei open air) sta cambiando e si sta radicalmente ridisegnando. Non più raccolta di oggetti o di opere d'arte ma narrazione e luogo di sintesi di cultura, dei servizi culturali e non solo, polo attrattivo del turismo e luogo di riconoscimento di un’identità territoriale.
Se tale evoluzione si avrà anche da noi, un grosso passo in avanti sarà già fatto.
Se riusciremo a parlare con i fatti e con chiarezza al pubblico, vinceremo questa battaglia vitale; otterremo il coinvolgimento del cittadino e delle generazioni future, nell'apprezzare il patrimonio (che capiranno), nel tutelarlo e narrarlo (che percepiranno come bisogno), dal quale trarrà più benefici (dalla soddisfazione dei bisogni culturali sino al consumo stesso dei beni culturali che reclameranno essi stesso come bisogno).
Per Giuliano infatti il patrimonio, cito, «appartiene a tutti e cambia in base al punto di osservazione del presente. “Ereditare” è un movimento di riconquista e vale anche per in nostro patrimonio culturale. Siamo noi cittadini a dover riscoprire il valore dei beni del nostro Paese: solo così avremo un ruolo attivo nella loro tutela e valorizzazione».
E in quest'ottica, per abbattere steccati e divisioni tra chi si occupa del patrimonio e del paesaggio chiama a raccolta tutti gli specialisti affinché si possano superare le barriere per il bene stesso di popolazione: propone infatti il tema dei “policlinici” del paesaggio e del patrimonio culturale, nei quali si possano formare i giovani sul campo, innovando la ricerca e la documentazione con strumenti standard comunicanti, utilissimi per conoscenza, co-pianificazione e controllo da parte di un personale sempre più ridotto nell'organico. Lo Stato deve dunque riprendere il controllo ambientale e culturale del territorio; ma deve farlo con innovazione e saggezza, evitando come la peste di ripetere scelte e procedure scellerate.
Insomma la proposta generale di Giuliano, della quale ho fatto solo una piccola esposizione (comprate e leggete il libro, ne vale la pena) ricerca senza mezzi termini quella che lui chiama un'alleanza degli innovatori. Riporto una dichiarazione rilasciata dallo stesso Giuliano in un'intervista precedente la presentazione ferrarese del libro (avvenuta ieri peraltro). “Il ministro
Franceschini commentando la mia proposta di "alleanza degli innovatori" ha detto giustamente che basterebbe un'alleanza delle persone di buonsenso. Ecco, basterebbe il buonsenso per superare delle antinomie ormai fuori dal tempo e incomprensibili. L'antinomia fra tutela e valorizzazione è veramente il frutto ormai marcio di una visione elitaria e statica del patrimonio e dell'eredità
culturale. Una visione che, ad esempio, non tiene conto della portata di una convenzione importante come quella di Faro del 2005 che attribuisce un valore dinamico all'eredità culturale, e attribuisce ai cittadini, alle popolazioni il compito di dare valore e significato alla cultura e un loro coinvolgimento pieno, in tutte le fasi: dalla conoscenza alla tutela e alla valorizzazione, fino ai risvolti socio-economici».
Concludo sottolineando che mi fa piacere come sia ben descritto e preso ad esempio il museo di Biddas creato dal nostro comune amico Marco Milanese in Sardegna (comune di Sorso), un museo coraggioso, fatto con poche risorse ma totalmente rivolto al pubblico e dove è vietato non toccare, dove si possono scaricare e copiare su una memoria e liberamente bibliografie, testi, immagini, dove si possono rompere e ricomporre copie delle ceramiche rinvenute e tanto altro.
Non c'è la concezione della proprietà del dato che non si può diffondere. Ma una concezione di totale apertura del museo alle persone.
Non è un caso che Biddas abbia ricevuto due anni fa il primo premio Riccardo Francovich conferito dalla Sami (Società degli Archeologi Medievisti Italiani) quale miglior museo o parco archeologico italiano che rappresenta la migliore sintesi fra rigore dei contenuti scientifici ed efficacia nella comunicazione degli stessi verso il pubblico dei non specialisti. Lo stesso premio che quest'anno ha ricevuto Poggibonsi con l'Archeodromo. Avventura questa, che ha avuto infatti molti dei risultati prospettati da Giuliano:
- coinvolgimento della popolazione (qui a Poggibonsi tutti parlano del “nostro” Archeodromo);
- crescita culturale con le nostre narrazioni e la nostra vocazione all'esperenzialità diretta e totale;
- nascita del senso del bene comune da tutelare e sviluppare;
- un bene vissuto da tutti e che richiama pubblico e turismo.
Non sorprende così, che un'innovativa iniziativa come questa, in cui si parla direttamente alle persone impiegando il linguaggio di tutti i giorni e la materialità della storia, abbia portato Poggibonsi per la prima volta nella sua storia a comparire con decisione sul mercato turistico. Non è un caso che saper parlare alla gente e perseguire al tempo stesso la qualità (con il significato di non aver paura, di sporcarsi le mani e metterci la faccia) inizi a proporre a questa collettività strade impensabili sino a pochi anni fa.
Dunque noi siamo sui binari tracciati da Giuliano e non potrebbe esere altrimenti.
Come ha dichiarato il sindaco Bussagli a Lecce al congresso SAMI: “Noi investiamo in archeologia pubblica”. Bene, qui si sta realizzando quell'alleanza tra Amministrazione, chi fa ricerca, comunità e collettività e pubblico che potrà davvero traghettare il paesaggio e il patrimonio al ruolo che gli compete. Abbiamo appena iniziato ma siamo in corsa.
Grazie dell'attenzione e grazie a Giuliano per aver scelto anche Poggibonsi per presentare il suo libro ma soprattutto le sue idee.
Marco Valenti
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