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Svecchiare i Beni culturali

Dopo anni di disinteresse, di tagli indiscriminati e blocco delle assunzioni, i beni culturali sono diventati di grande attualità, fanno parte dell’agenda del governo, ricevono grande attenzione sui giornali e i social media, sono argomento di conversazione. È questa una novità straordinaria. Il Sole 24 Ore è stato in prima linea nel sollecitare e sostenere un deciso rinnovamento: basti pensare al manifesto e agli stati generali della cultura. Ma forti e diffuse sono le reazioni conservatrici.

La riforma del MiBACT voluta dal Ministro Dario Franceschini, pur avviata sotto il peso della spending review, ha il merito di non essere l’ennesima riorganizzazione amministrativa, ma il frutto di un disegno politico-culturale, con alcuni punti fermi: pari dignità tra tutela e valorizzazione; creazione di un sistema museale nazionale; autonomia gestionale e scientifica di musei e parchi archeologici; attenzione a educazione e ricerca; sperimentazione di nuove forme di gestione; superamento della concezione elitaria e proprietaria del patrimonio culturale. Può non piacere e non essere condivisa – è legittimo – ma è finalmente un progetto organico.

La recente seconda fase completa il disegno avviato con la riforma dell’agosto 2014, con l’istituzione di altri dieci musei e parchi archeologici autonomi e delle soprintendenze uniche (‘Archeologia, Belle Arti e Paesaggio’). Perché? Innanzitutto per una ragione culturale: s’integrano competenze prima frammentate affermando una visione unitaria, globale, olistica del patrimonio culturale diffuso in tutto il territorio italiano. Solo, infatti, un approccio globale e integrato, interdisciplinare, ‘territorialista’, può affrontare, nello studio come nella tutela, la complessità di un territorio. Il paesaggio costituisce l’elemento unificante e assume un ruolo centrale. Le nuove soprintendenze, operanti in ambiti più piccoli, non negano le specializzazioni ma le integrano, prevedendo vari settori: archeologia, arte, architettura, paesaggio, beni immateriali, educazione e ricerca. Si tratta di organismi radicati nei territori, più vicini alle comunità locali, che, superando le precedenti sovrapposizioni, che tante volte hanno prodotto pareri divergenti, ritardi, confusione, siano in grado di parlare con una voce unica, in maniera più rapida. Si fa riferimento, a questo proposito, al problema del silenzio-assenso introdotto dalla legge Madia (in caso di mancata risposta entro 90 giorni il silenzio equivale a parere favorevole). È una norma sbagliata, ma anche prescindendo da essa è necessario che uno Stato moderno concepisca le strutture di tutela come un vero servizio pubblico e garantisca risposte certe, univoche e rapide agli enti locali, alle imprese, ai cittadini. Quanto invece al ruolo dei prefetti previsto dalla stessa legge, il Ministro e il Governo hanno sempre assicurato che il loro ruolo sarà di mero coordinamento territoriale, come in altri paesi europei, e non interverranno nella sostanza delle decisioni relative ai beni culturali. Il parere del soprintendente, proprio perché unico, sarà più forte e autorevole. Bisognerà vigilare che così sia, ma si evitino anche in questo caso allarmismi e catastrofismi.

La soppressione delle soprintendenze archeologiche è da alcuni interpretata come la ‘morte della tutela archeologica’. Archeologi in realtà saranno presenti in tutte le 39 soprintendenze. L’idea che il patrimonio archeologico sia distinto da quello architettonico, artistico o da quello paesaggistico, è metodologicamente insostenibile. Cosa c’è di ‘pericoloso’ per gli archeologi nel lavorare fianco a fianco con architetti, storici dell’arte, demoantropologi? Servirebbero anzi molte altre competenze specialistiche: geologi, archeometristi, restauratori, informatici, ingegneri, economisti della cultura, esperti di comunicazione, etc. Nuove e stimolanti sfide si aprono per gli archeologi, che potranno mettere i loro metodi, insieme ad altri specialisti, al servizio di una tutela integrale del patrimonio. Inoltre nascerà un Istituto Centrale per l’Archeologia, un luogo di sperimentazione e di supporto tecnico-scientifico all’attività delle soprintendenze (e delle missioni italiane all’estero), in collaborazione con le università e i centri di ricerca, per favorire un’elevata qualità della ricerca archeologica.

Molti dicono di condividere in linea di principio l’idea della soprintendenza unica ma non la sua difficile applicazione; altri usano in realtà il secondo argomento per colpire la visione culturale che sta alla base di quel modello. C’è poi chi sostiene (ma è una falsità!) che le soprintendenze uniche saranno dirette solo da architetti che – a detta dei critici – non sarebbero in grado di comprendere la ‘specificità’ del bene archeologico. Oltre che corporativo, è un argomento culturalmente debole: la soprintendenza archeologica di Roma è al momento diretta da un architetto e non risulta che la tutela del patrimonio archeologico abbia subito disastri. Al vertice delle soprintendenze in realtà ci saranno archeologi, architetti, storici dell’arte e altri specialisti, che dovranno avvalersi di tutte le competenze e coordinarle.

Alcune delle preoccupazioni avanzate sono fondate e condivisibili. La riforma interviene su un organismo ministeriale debilitato, stanco, con personale molto invecchiato (l’età media è ormai vicina a 60 anni), demotivato e privo di mezzi e strumenti operativi. I problemi logistici di riorganizzazione di uffici, archivi, magazzini, inventari (anche a causa di gravi ritardi nella digitalizzazione) sono notevoli. Ma si tratta di questioni tecniche risolvibili se ci sarà la volontà da parte di tutti. Cosa impedisce, ad esempio, di condividere un laboratorio di restauro o una biblioteca tra le soprintendenze di una stessa regione? Servono soprattutto energie nuove: il prossimo concorso per 500 tecnici-scientifici è una boccata d’ossigeno, ma poi bisognerà proseguire con un turn-over continuo, annuale. Anche se siamo ancora lontani da un finanziamento adeguato, le risorse sono tornate a crescere. E difficilmente si sarebbero ottenuti nuovi posti e risorse senza una profonda riforma del sistema.

Le critiche e le proteste in un paese restio alle novità sono fisiologiche. Ancora una volta si traducono in un ‘no’ a qualsiasi cambiamento, senza proposte alternative, che non siano la difesa dell’esistente.

Aggiustamenti, miglioramenti e ulteriori completamenti saranno necessari, per esempio, con un rapporto più stretto e integrato tra soprintendenze e università (i cd. ‘policlinici dei beni culturali’). Il vero riformismo produce riforme progressive, anche imperfette, bisognose di aggiustamenti successivi. La riforma perfetta è quella che non si realizza mai!

C’è da augurarsi che si sviluppi un confronto sereno e costruttivo, che si tenga conto delle critiche fondate e soprattutto delle proposte concrete per una migliore applicazione della riforma, che si evitino le barricate e si lavori insieme per il bene del nostro patrimonio culturale.

Pubblicato in Il Sole 24 Ore, Domenica, 14.2.2016, p. 32 


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