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Bilancio 2025: una preoccupante afasia aleggia sulla politica culturale

È grave, dopo anni di crescita, la decisione di ridurre i fondi per la tutela e la valorizzazione (-78 milioni nel 2026, -168,8 nel 2028...). Proprio nell’anno in cui il Ministero celebra il 50mo anniversario della sua istituzione

Il 2025 avrebbe potuto rappresentare un momento di riflessione sul senso del patrimonio culturale in Italia, ma si è rivelato un’occasione mancata. Eppure, non si è trattato di un anno qualsiasi: ricorreva il 50mo anniversario dell’istituzione del Ministero della Cultura (allora «dei Beni culturali e dell’Ambiente»), fondato da Giovanni Spadolini. Da quel 1975 si sono succeduti, tra alti e bassi, una trentina di ministri (con Dario Franceschini ministro in quattro diversi Governi per quasi nove anni). Una ricorrenza così simbolica avrebbe meritato una riflessione approfondita sul significato stesso del patrimonio, anche alla luce delle novità introdotte dalla Convenzione di Faro sul valore del patrimonio culturale per la società, che, pur ratificata dal Parlamento nel 2020, non ha avuto finora quasi alcuna applicazione. Il confronto si è progressivamente assopito, rispetto alla vivacità degli anni passati, in un clima preoccupante di afasia. Nell’ultimo anno, si è accentuata la ricerca di una «cultura di destra», volta a ridefinire gli equilibri del Paese (non senza una serie di nomine) e a sottrarre alla sinistra quella tradizionale egemonia culturale che avrebbe condizionato il dibattito pubblico. Nei fatti il ministro Alessandro Giuli ha proseguito su un tracciato già segnato, senza vere novità. Sarebbe stata necessaria un’azione di correzione di errori e miglioramenti delle recenti riforme, a 10 anni da quella stagione. Invece, si è preferita l’ennesima riforma dell’organizzazione del Ministero, che ha ulteriormente appesantito il centro a svantaggio di una periferia sempre più debole e in affanno: ben quattro Dipartimenti (al posto dell’unico Segretariato generale) a loro volta articolati in Direzioni generali. Si è così rafforzata la struttura a «canne d’organo», incomunicanti, secondo un’efficace formula di Marco Cammelli. Un nuovo esercizio di ingegneria amministrativa, con un incremento di posti dirigenziali (e dei relativi costi), girandole di persone e di carta intestata, senza una reale strategia. Non sono mancate le mostre, anche di successo, come il Futurismo a Roma o i bronzi di San Casciano, ormai in tournée. Con una battuta: il sonno del MiC genera mostre!

Progressi pochini, arretramenti (realizzati o tentati) parecchi. È il caso, ad esempio, della liberalizzazione dell’uso delle immagini dei beni culturali, gravata da balzelli e limitazioni introdotte da due decreti dell’ex ministro Gennaro Sangiuliano: sarebbe interessante sapere quanto abbia ricavato il Ministero da quei canoni, a fronte dei costi e delle risorse di personale impiegate per la gestione di pratiche bizantine che, come anche la Corte dei Conti ha certificato, sottraggono tempo a funzioni ben più utili. Nella nuova organizzazione è previsto uno specifico Istituto centrale per la valorizzazione economica: la migliore dimostrazione di un grave fraintendimento del concetto di valorizzazione da intendersi non come semplice fonte di reddito, ma come attribuzione di valore da parte dei cittadini, per favorire una tutela sociale condivisa e uno sviluppo a base culturale del Paese. Peraltro, dopo aver giustamente riequilibrato tutela e valorizzazione negli anni passati, si attua sempre più un indebolimento della tutela a vantaggio di una valorizzazione spesso ridotta a spettacolarizzazione e banalizzazione. Un dato è davvero grave e preoccupante: dopo anni di crescita dei finanziamenti al Ministero, si riducono i fondi per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale: -78 milioni nel 2026, -75 milioni nel 2027 e -168,8 nel 2028

Recentemente si è sventato un passo indietro nella qualità professionale del personale tecnico scientifico, ottenendo l’annullamento, a seguito delle proteste, di un decreto dirigenziale che tentava di abbassare i requisiti d’accesso: Laurea magistrale e non più Specializzazione o Dottorato di ricerca, in aperta contraddizione con il Dm 244/2019 e la Legge 110/201, che hanno previsto tre fasce per i professionisti del patrimonio culturale, con l’obbligo dei titoli post lauream per la prima fascia. Con quel decreto un funzionario si sarebbe trovato a coordinare professionisti in possesso di titoli accademici superiori ai propri: un paradosso. Il lavoro dei funzionari del MiC (come quello dei liberi professionisti) andrebbe invece valorizzato, garantendo migliori retribuzioni, possibilità di studio e aggiornamento continui. Limitare le competenze non provocherebbe solo gravi danni nelle delicate operazioni di scavo, restauro o pianificazione urbana e territoriale, ma comprometterebbe la qualità stessa della gestione del patrimonio. Ci sarebbe ora da augurarsi che si colga l’occasione per stabilire un rapporto integrato tra Ministero dell’Università e della Ricerca e MiC, attuando finalmente il progetto dei policlinici del patrimonio culturale di cui si parla da anni: strutture miste nelle quali mettere in comune competenze, laboratori, strumentazioni, come già avviene in ambito sanitario. Un primo passo dovrebbe essere la revisione delle Scuole di Specializzazione, il cui impianto, datato, risulta poco adeguato alle esigenze di una formazione avanzata dei funzionari e dei professionisti del patrimonio. Ecco un bel progetto comune, oltre ogni logica di schieramento.

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