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Dopo Sangiuliano, la partenza di Alessandro Giuli da ministro è incoraggiante

Per comprendere il “Giuli pensiero” ho letto il suo ultimo libro, da cui emerge la volontà di contribuire a una destra moderna, matura, plurale, sociale, liberale, rigorosa, avanzata. L'auspicio è che questa sia bussola del suo lavoro, tanto da porlo davanti a scelte in discontinuità col suo precedessore


Dopo l’uscita di scena ingloriosa di Gennaro Sangiuliano, travolto dalla nota patetica vicenda boccaccesca, il nuovo ministro Alessandro Giuli ha affrontato in maniera decorosa nel giro di pochi giorni il G7 Cultura. In molti (compreso chi scrive) si chiedono come sarà il nuovo ministro, che scelte farà: in totale continuità o almeno parziale discontinuità con Sangiuliano, o eliminerà alcune delle principali storture della per nulla memorabile gestione precedente? E soprattutto come intenderà il suo ruolo?

L’ex vicedirettore del Foglio, reso molto popolare negli ultimi tempi per l’assidua presenza televisiva in particolare nel circolo assai ristretto del salotto di Lilli Gruber, risulta non facilmente classificabile: un passato nella destra estrema, passioni esoteriche, mitologiche e pagane, un’attività giornalistica e più recentemente la presidenza (per la verità priva di tracce particolarmente indelebili) della Fondazione MAXXI, su nomina proprio di Sangiuliano. Per comprendere il più recente “Giuli pensiero” è utile la lettura del suo recente “Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia contemporanea” (Rizzoli 2024). È quello che ha fatto anche lo scrivente. Ebbene, dopo un incipit alquanto inquietante («Siamo figli della terra e del cielo stellato, celeste è l’origine. Le radici nazionali non possono gelare poiché s’immergono in profondità intangibili che travalicano la favola e l’intreccio storico e si saldano nel nostro genius loci meridiano espresso in una lingua universale di assolata Concordia») che, stessa ammissione dell’autore, deriva dalla sua visione “orfico-tolkieniana”, le circa 150 pagine del libretto, molto ispirato dalla recente esperienza al MAXXI, esprime alcune posizioni interessanti che meritano attenzione anche da parte di chi ha posizioni molto lontane da quelle di Giuli. Oltre, infatti, ad affermare ripetutamente che «il perimetro invalicabile in cui si colloca ogni nostro discorso pubblico» (p. 8) è costituito dalla Costituzione repubblicana (cosa che parrebbe quasi ovvia - ma evidentemente così non è, se è necessario ribadirlo più volte - per un presidente di una istituzione culturale pubblica e ora ministro), precisa a più riprese (cosa meno scontata negli ambienti da cui proviene) che «il fascismo è morto e sepolto» e che bisogna «scavalcare la pesante ipoteca della compromissione con il regime fascista» (p. 129).

L’obiettivo dichiarato non è tanto quello di affermare una egemonia culturale della destra quanto contribuire a costruire una destra moderna, matura, plurale, sociale, liberale, rigorosa, avanzata, illuminata, identitaria di governo e di sistema (pp. 16-17); «è giunta l’ora che la destra italiana, ormai adulta, celebri il proprio ingresso nell’età matura e si lasci alle spalle il “terribile vuoto morale dei Paesi vinti” (Giuseppe Bottai), così come ogni lacerto di nostalgia per un’identità illusoria animata da fantasticherie revansciste, reazionarie, regressive» (p. 7 e in copertina); e poi quasi con un gioco di parole esprime la volontà «di essere progressivi nella conservazione e conservatori nel progredire» (pp. 26 e 131): vaste programme, verrebbe da dire con il generale de Gaulle, pensando alle posizioni dell’attuale destra italiana con i Salvini e i Vannacci. Al di là del richiamo a Giuseppe Bottai, che certo fu l’autore della legge di tutela del patrimonio culturale del 1939 (n. 1089) ma anche uno dei più convinti sostenitori delle leggi razziali (tanto da espellere dalla scuola gli studenti e i professori ebrei), ciò che conta in tale posizione, che non nasconde una vena utopistica, è la volontà espressa di giungere al superamento di una logica di contrapposizione preconcetta: «è arrivato davvero il momento di uscire da quelle logiche da guerra di posizione e di logoramento e agire politicamente nel campo aperto del confronto. Nel campo aperto della cultura, per cominciare» (p. 61).

Insomma, un invito al confronto aperto, laico, rispettoso delle diversità. Frequenti sono i richiami, oltre che a Gramsci, a Norberto Bobbio, a Piero Calamandrei. Con Bobbio dice di condividere la convinzione che «il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze» (p. 77) mentre di Gramsci apprezza anche l’idea che «comprendere e valutare realisticamente le posizione e le ragioni dell’avversario … significa appunto essersi liberati dalla prigione delle ideologie (nel senso deteriore, di fanatismo ideologico), cioè porsi da un punto di vista “critico”, l’unico fecondo nella ricerca scientifica» (p. 78).

Sarà questa la bussola nel suo essere ministro della Cultura? Si spera di sì, almeno sulla base dell’affermazione che «chi ricopre un ruolo istituzionale è involontariamente sottoposto a un processo di spersonalizzazione attiva che ne ridisegna l’equazione individuale secondo uno schema che supera la parte in nome del tutto» (p. 9).

Giuli dimostrerà, quindi, che non corrisponde a verità quanto in realtà stava facendo il suo predecessore e cioè che «la destra al potere – si dice da parte sinistra – sta occupando le casematte della cultura con avidità chiodata, bulimia cieca, inesperienza di gestione e incompetenza di nomenclatura» (p. 22)? Si discosterà dalle pessime scelte di Sangiuliano nell’inutile recente riforma del ministero, reso ancor più pesante, frammentato e macrocefalo, mentre è la periferia che va rafforzata? Vorrà, per esempio, evitare quell’infausta tendenza a far cassa a ogni costo, facendo dei musei «molto più che cataloghi di opere, molto più che gallerie cespugliose» ma «luoghi di incontro quotidiano, risuonare di voci a confronto, farsi anima viva della città» (p. 57)? Desidererà abbandonare la logica che privilegia solo i grandi attrattori e rafforzare la rete diffusa dei musei “minori”? Privilegerà l’azione di tutela delle soprintendenze? In generale vorrà recuperare lo spirito riformista degli anni passati, anche se legati a un ministro di altro schieramento, migliorando l’applicazione, correggendo alcuni errori e perfezionando (ma non smantellando) quell’impianto, senza cedere alle tentazioni dei veri conservatori che vorrebbero un ritorno a un anacronistico passato novecentesco? Saprà favorire la piena liberalizzazione delle immagini dei beni culturali ed evitare anche quella tendenza da stato etico che decide cosa è bene e cosa è male anche a proposito delle immagini? Confermerà la fiducia all’attuale dirigenza del Museo Egizio, ultimamente sotto pressione nonostante l’eccellente lavoro svolto? Selezionerà dirigenti, direttori, consulenti e consiglieri sulla base del merito e di accertate competenze invece che misurandone solo la fedeltà?

In uno dei suoi primi atti, nella designazione della commissione per il cinema, ha dimostrato una maggiore apertura del suo predecessore. Ma speriamo, senza pregiudizi faziosi, molto di più.


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