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Le verità terribili del carcere di Foggia

Il tema che voglio oggi affrontare in questa mia rubrica non è un argomento di cui si parla spesso, anzi è un argomento di cui si preferisce non parlare, lo si rimuove, così come si rimuove quel luogo di disperazione. Anche in campagna elettorale si tratta di un tema assai poco toccato, lo si evita; anzi anche in questo caso lo si considera un argomento pericoloso, di cui non parlare, perché ‘politicamente scorretto’. Si tratta del carcere e della mancanza delle minime condizioni di vivibilità e di dignità umana, alle quali sono condannate migliaia di persone. Persone che hanno certamente sbagliato, ma che non meritano di essere costrette a disumanizzarsi, in un luogo che dovrebbe al contrario favorirne il recupero e il reinserimento sociale.

Parlo in particolare di una realtà a noi vicinissima, il carcere di Foggia, posto nella periferia della città, ma in realtà collocato in un altrove fisico e mentale. Pochissimi volontari ne parlano, pochissimi ne conoscono l’esistenza, pochissimi si impegnano per garantire minime forme di aiuto.

Ho visitato il carcere in varie occasioni, ma ho avuto solo recentemente la possibilità di conoscerlo un po’ meglio in occasione di una visita fatta con l’assessore Dario Stefàno e la consigliera regionale Anna Nuzziello. Abbiamo incontrato una delegazione di detenuti e poi effettuato un giro in alcuni reparti. Un dato positivo è costituito dalla recente istituzione da parte della regione Puglia delle figure del Garante dei detenuti, che si occupa di tutte le carceri regionali, Pietro Rossi, del preposto Antonio Vannella, che si occupa del carcere di Foggia, e della Garante dei minori Rosi Paparella. Persone preziose, riferimenti importanti per i detenuti e per la stessa amministrazione carceraria. I detenuti hanno parlato con noi liberamente e con molta dignità, consapevoli degli errori compiuti, senza chiedere cose irrelizzabili. Le loro richieste sono state minime: acqua calda per fare una doccia, il riscaldamento per non soffrire un freddo glaciale (vivono perennemente imbaccuccati con tute e giacconi) o un sistema che mitighi il caldo afoso da serra d’estate, possibiulità di formazione. Soprattutto hanno lamentato le condizioni di sovraffollamento che caratterizza il carcere di Foggia, come tanti altri, nei quali sono continuamente ‘scaricati’ detenuti, spesso per piccoli reati che potrebbero prevedere molte forme alternative di pena, o migranti privi di permesso di soggiorno o detenuti per reati minori (anche se a Foggia questo fenomeno è ancora marginale, in altre realtà carcerarie sono ormai la maggioranza). Il carcere di Foggia, inoltre, è una struttura vecchia, degradata, per molti anni abbandonata a se stessa senza alcun intervento di manutenzione e miglioramento. Strutture fatiscenti, grigie, tristi, sporche. Alcuni interventi di miglioramento sono stati avviati recentemente grazie all’impegno di una donna straordinaria, energica e sensibile al tempo stesso, l’attuale direttrice, molto benvoluta dagli stessi detenuti: Mariella Affatato (da Ruvo di Puglia, un’altra ‘colonizzatrice’ che a Foggia sta dando molto, una delle donne, insieme all’attuale prefetto e all’attuale questore, che occupano posti delicati, impegnativi, tradizionalmente maschili, che stanno facendo molto bene a Foggia). Mi ha fatto una certa impressione, assai piacevole, trovare quei corridoi grigi e tristi trasformati e colorati con belle rappresentazioni di monumenti significativi di tante città di Puglia e di altre regioni dalle quali provengono i detenuti: bei disegni di castelli, cattedrali, vedute di città e paesaggi.

Insieme ai detenuti, soffrono per le condizioni di vita e di lavoro difficilissime gli stessi agenti di polizia penitenziaria, costretti a ritmi massacranti per il sottodimensionamento dell’organico e per il sovraffollamento di detenuti da gestire.

Ma il tema principale che voglio sottolineare è quello della dignità umana, qui calpestata e mortificata in ogni momento della giornata. La difesa della dignità umana è una conquista importante, frutto di battaglie millenarie, dall’antichità ad oggi, contro la schiavitù ed ogni forma di sfruttamento, di marginalizzazione, di subalternità, sui posti di lavoro, in famiglia, nella società. Credo che garantire condizioni di vita dignitose sia ancor più necessario in un luogo, come il carcere, che deve aiutare chi ha commesso un errore a ricredersi, a migliorare, a ristabilire un corretto rapporto con la società.

Nei giorni in cui ho effettuato questa visita al carcere foggiano, del tutto casualmente stavo leggendo un bel libro che proprio del mondo carcerario parla: Dentro, di Sandro Bonvissuto (Einaudi); un libro bellissimo e durissimo, scritto in maniera splendida, capace di far vivere sensazioni che altrimenti sarebbe impossibile provare per chi del carcere non ha idea alcuna.

Ecco perché per comunicare anche ai lettori alcune sensazioni che consentano loro di cogliere, sia pure in parte, la drammaticità del problema, riproduco una pagina di questo libro, dedicata al problema principale: lo spazio.

«La vera punizione corporale inflitta a chi stava lì dentro era dunque proprio dover vivere in una continua carenza di spazio. Tutto il resto veniva dopo. Ed era una cosa, questa, che segnava una radicale inversione di tendenza rispetto a come si era abituati a vivere. Fuori magari c’era poco tempo ma tanto spazio. Ed era quello il cortocircuito che ti faceva impazzire. Venti ore al giorno dentro tre metri per due in quattro persone. Una cosa che nessuno avrebbe mai potuto cambiare. Per questo, quando si sentiva qualcuno dire che prima o poi avrebbero risolto il problema della sovrappopolazione nei penitenziari, non c’era uno ormai che gli credesse. Mi avevano detto di atri istituti dove c’erano celle di quatto metri  per quattro che contenevano fino a dieci brande sovrapposte, più tavolo, sedie, stipetti per tutti. Dicevano che lì dentro noi vivevamo in conformità ad un modello di detenzione istituito, il modello “quattro per due”, quattro detenuti in spazi pensati per due. Di questa storia dello spazio parlavamo spesso in cella; eravamo tutti d’accordo che ci facesse male quell’inevitabile vicinanza. Una vicinanza che induceva i sensi a ridurre le informazioni trasmesse al cervello e costringeva a vivere in una stasi emotiva. Le sensazioni diventavano lì dentro cose stanche, minori, lontane, avvolte da una nebbia perenne. E tutto si predisponeva al regresso inesorabile: il ritorno allo stadio fetale, quando percepivi il mondo come se ti trovassi dentro l’acqua».

Articolo pubblicato in L'Attacco, 7.2.2013, pp. 1, 22.
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