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Modello pugliese per la rivoluzione del sapere

Ho già affrontato in queste stesse pagine alcuni aspetti delle linee programmatiche del ministro per i Beni Culturali Massimo Bray. Ci ritorno per indicare, sia pur schematicamente, alcuni altri punti.

Il Ministro Bray invoca giustamente una maggiore collaborazione con il Ministero dell’Università, in particolare a proposito della cooperazione internazionale. Sono convito che tale collaborazione possa e debba essere sistematica e allargata a tutti i campi, soprattutto se si vuole avviare politiche realmente innovative. Al contrario, oggi, se si escludono casi singoli legati a buoni rapporti personali, la collaborazione tra università e soprintendenze è assai limitata, mentre prevale un’assurda conflittualità. Basti pensare alla vicenda delle ‘concessioni di scavo’, una procedura, che anche nella denominazione conserva un sapore ottocentesco: negli ultimi anni si è andata sempre più appesantendo dal punto di vista burocratico-procedurale e oggettivamente limita l’attività di ricerca e di formazione delle università. Non si riflette forse abbastanza sul ruolo svolto dall’Università, per cui limitare l’attività universitaria sul campo non può non avere ripercussioni negative per la stessa creazione di figure professionali con competenze adeguate alle nuove sfide del mondo del lavoro, tanto nel caso dei futuri funzionari delle Soprintendenze quanto in quello degli archeologi professionisti impegnati nelle varie attività svolte per conto delle stesse Soprintendenze. Certamente non mancano errori delle Università, che dovrebbero, ad esempio, saper rendere più omogenei a livello nazionale i percorsi formativi, eliminare l’eccesso di frammentazione e di duplicazione di corsi di studio di primo e secondo livello e delle Scuole di Specializzazione, dar vita a corsi interateneo di maggiore qualità. Un progetto interessante potrebbe riguardare la creazione di un corso quinquennale a ciclo unico in Beni Culturali, con diversi indirizzi (che superi l’attuale sistema del 3+2, particolarmente inadeguato in questo campo), da elaborare in stretta collaborazione tra MIUR e MiBAC, anche con l’apporto delle associazioni professionali.

Il Ministro tocca il tema del ruolo dell’associazionismo, dei professionisti, delle fondazioni, degli sponsor privati, della circolazione dei dati. Anche in questo caso servirebbe più coraggio.

Uno Stato forte e maturo dovrebbe, infatti, saper manifestare la sua autorevolezza anche nella consapevole cessione di potere, a partire da una netta separazione tra la gestione  e l’azione di coordinamento e controllo, superando, cioè, l’assurda concezione ‘proprietaria’ del patrimonio culturale, che ancora oggi caratterizza l’azione del MiBAC, e le vere e proprie situazioni di conflitto di interesse.

Andrebbe istituita un’agenzia indipendente per la valutazione della qualità della tutela dei beni culturali e paesaggistici, capace di indicare parametri, standard qualitativi, protocolli, di premiare e incentivare le buone prassi, di valorizzare l’ottimo lavoro di tutela e di ricerca svolto da numerosi funzionari e, quando necessario, di censurare, sulla base di dati certi e di valutazioni rigorose, pratiche e operazioni di basso profilo.

Infine, uno Stato libero, aperto, europeo, dovrebbe saper garantire e favorire l’accesso ai dati e la loro libera circolazione, contro una concezione proprietaria che ancora oggi impedisce, nel rispetto di leggi assure e anacronistiche nell’età del web, dell’open access e degli open data, anche la libera riproduzione dei beni culturali pubblici. Solo in Italia i musei e le aree archeologiche sono piene di divieti, anche di fotografare!

Ci sono ampi margini per introdurre importanti innovazioni positive anche utilizzando le attuali norme vigenti. Si tratta di innovazioni che non richiedono investimenti (che pure sarebbero necessari, in maniera adeguata) e, pur essendo pertinenti alla sfera culturale e teorica, potrebbero avere immediate ricadute nella gestione del patrimonio e nella formazione di chi sarà domani chiamato a gestirlo.

In realtà, bisognerebbe uscire definitivamente da una logica di contrapposizione e avviarsi finalmente verso una visione di sistema statale integrato. Per questo ribadisco che il problema reale non è (soltanto) economico ed organizzativo quanto metodologico, culturale e politico. Ritengo, infatti, che se oggi, per effetto di una sorta di miracolo, fossero disponibili ingenti risorse, i problemi reali della ricerca, della tutela e della valorizzazione del patrimonio archeologico non sarebbero altrettanto miracolosamente risolti.

Bisognerebbe avere la capacità di innovare, guarendo dalla sindrome del torcicollo, che porta molti a guardare (rimpiangendolo) solo al passato e impedisce di cercare soluzioni condivise per il futuro. È un’impresa non facile, impegnativa, faticosa, perché richiede il coraggio della politica e la capacità creativa dei tecnici, necessita di generosità e di voglia di rimettersi in gioco, scuote strutture organizzative quasi secolari, anelastiche ed anchilosate, sconvolge il quieto vivere burocratico e si oppone all’inerzia di chi intende conservare posizioni di rendita. Ma è anche un’impresa esaltante, oltre che necessaria ed improcrastinabile, che richiede l’apporto attivo di tutti.


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