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Quel che resta.
Costituiscono uno degli archivi più preziosi, al tempo stesso biologici e culturali. Parlo dei resti scheletrici umani. Archivi dai quali recuperare informazioni sull’evoluzione umana, le migrazioni, l’ecologia, la qualità della vita (dall’alimentazione alle attività lavorative, dalle pratiche mediche a quelle funerarie, ecc.), la demografia, le epidemie e in molti altri campi ancora.
Se ne occupa un bel libro recente (Quel che resta. Scheletri e altri resti umani come beni culturali, Il Mulino, Bologna 2022, a cura di Maria Giovanna Belcastro, Giorgio Manzi, Jacopo Moggi Cecchi), che raccoglie i contributi di alcuni dei maggiori antropologi, afferenti all’Associazione Antropologica Italiana. Oltre ai curatori, Luca Sineo, Giacomo Giacobini, Giulio Barsanti, un filosofo della scienza (biologica) del livello di Telmo Pievani, uno studioso di bioetica e di storia della scienza come Fabrizio Rufo e un archeologo attento all’antropologia culturale e all’archeologia funeraria come Valentino Nizzo.
È un libro dalla piacevole lettura (che consiglio a tutti) e dai molti meriti, a partire dalla chiarezza e dalla semplicità anche nell’affrontare questioni molto complesse. Ma soprattutto ha il pregio non solo di illustrare anche a un pubblico di non addetti ai lavori il potenziale informativo dei resti umani ma anche di sottolineare con forza la necessità di un approccio contestuale, che eviti di separare i manufatti, cui tradizionalmente gli archeologi hanno riservato, soprattutto in passato, maggiore cura e attenzione, da quello che resta di chi quei manufatti li ha pensati, prodotti, usati, distrutti, riutilizzati. Troppo a lungo, infatti, indagando per esempio una necropoli (e non sempre con il contributo sul campo degli antropologi), gli archeologi hanno trascurato i resti scheletrici a tutto vantaggio dei corredi o, nella migliore delle ipotesi, hanno relegato gli studi antropologici in appendice. Il contesto funerario va indagato nella sua unitarietà anche per poterne comprendere appieno il significato. Va definitivamente affermata, insomma, la necessità di disporre sul campo e in laboratorio di specialisti, adeguatamente formati, del tutto integrati nell’équipe di ricerca archeologica. Gli antropologi, insomma, non possono più essere solo gli specialisti degli aspetti biologici cui rivolgersi per ottenere dei dati, ma devono entrare nel vivo dell’analisi e dell’interpretazione storico-archeologica, così come gli archeologi non possono più prescindere da un approccio globale, quindi anche bioarcheologico. Servono, cioè, un linguaggio comune, metodi condivisi, una reale multidisciplinarità, superando le «barriere disciplinari degli ambiti accademici (scienze umane e sociale vs. scienze)» (p. 168): «Il rischio, infatti, è quello di attribuire diverso valore agli elementi costituenti il contesto e di riproporre nella metodologia di studio quel divario tra “natura” (materialità dello scheletro) e “cultura” (corredo con il suo carico di significato simbolico), di stampo crociano» (p. 167).
Un altro tema centrale nel libro è quello legato al dibattito sviluppatosi negli ultimi anni a livello internazionale e anche in Italia a proposito dell’esposizione di scheletri o mummie nei musei e nelle mostre. Si sono andate moltiplicando le critiche, figlie del politicamente corretto, all’esposizione museale così come anche le richieste di restituzione, di repatriation, da parte di chi si sente (o si auto-attribuisce il ruolo di) erede di quei resti.
Indubbiamente va posta cura nella conservazione e nell’esposizione dei resti umani, quanta e ancor più di quella riservata ai manufatti (ma quanti resti scheletrici giacciono abbandonati da anni in magazzini, spesso inaccessibili anche agli studiosi?), secondo le indicazioni fornite anche dall’ICOM, e vanno evitate certe morbose, sempre ascientifiche, spettacolarizzazioni e certe forme di sensazionalismo: «quando un resto umano entra a far parte di una collezione cambia status e diviene un oggetto museale, ricco di potenzialità di ricerca e spesso anche di interesse storico-scientifico. Diviene cioè un bene culturale, che, come tale, deve essere tutelato, studiato e valorizzato. E anche esposto al pubblico, nei modi corretti che la sua natura di materiale sensibile richiede» (pp. 35-36).
Non esiste un’etica universale. Pertanto, le scelte non possono che essere diverse a seconda delle culture e delle sensibilità. Ma non si può prescindere dalla centralità della ricerca. La medicina occidentale ha fatto enormi progressi dal XIV secolo in poi grazie agli straordinari sviluppi delle conoscenze dell’anatomia umana e delle varie patologie rese possibili solo dall’autopsia, diversamente da altre medicine che, per vincoli culturali e religiosi, non hanno praticato la dissezione e lo studio dei cadaveri.
Non si facciano passi indietro nella difesa del ruolo della ricerca scientifica e del progresso delle conoscenze. Anche per questo è necessario che gli studiosi escano dalle loro “nicchie” e guadagnino il consenso sociale anche attraverso la buona divulgazione e la “scienza aperta”: «è fondamentale non perdere l’opportunità per creare una comunità di cittadini che insieme a scienziati e decisori politici, sappia realizzare un uso competente della conoscenza e sia in grado di promuovere una riflessione sull’imprescindibile natura solidale di questa impresa» (p. 172).
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