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Un divano a Tunisi
Cinema d’estate in campagna, 5. Si torna al cinema francese, o meglio franco-tunisino, con “Un divano a Tunisi” della regista di origini tunisine Manele Labidi, che con il sorriso e una comicità a tratti surreale narra la vicenda di Selma, bella psicanalista trentenne che decide di tornare a Tunisi da Parigi, dove si è trasferita con la famiglia esiliata, per tentare di allestire uno studio che offra una alternativa alle chiacchiere negli hammam e dalla parrucchiera. scontrandosi con una realtà difficile fatta di pseudoburocrazia, corruzione e anche della rigidità di un poliziotto che rappresenta il tentativo di affermazione di regole in un paese stremato e schizofrenico, diviso tra tradizione, riemersione dell’Islam conservatore e modernizzazione, all’indomani della rivoluzione dei gelsomini. Difficile pensare che un arabo paghi per parlare, per di più a una donna, dei suoi problemi. Eppure una lunga fila di personaggi, a volte surreali, comincia a frequentare il suo studio presentando diversi aspetti irrisolti della società tunisina (e non solo), dall’omosessualità al rapporto con la religione, dalla voglia di fuga al desiderio di un futuro diverso. Eppure Selma ci prova, con tutte le sue forze e con una determinazione che pare vacillare nel momento dell’ennesimo rinvio per ottenere una pratica dallo scalcagnato ministero della salute che legalizzi il suo studio. Neanche la presenza onirica di Freud, in un momento in cui Selma si trova persa lungo una lunga strada deserta, pare riuscire a risollevare il suo umore. La conclusione del film lascia intravedere una speranza. Bel film, delicato, divertente eppure capace di far riflettere sulla situazione sempre più difficile della Tunisia e di tutto il Nord Africa, oggi più che mai quando anche le speranze della primavera araba di sono tristemente dissolte.
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