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Daniele Manacorda, L'archeologia non è solo arte

Uno spettro s’aggira nelle aule accademiche e fra i corridoi ministeriali, un’ombra tremula di qualcosa che fu e non è più: l’idea che l’archeologia altro non sia che la storia dell’arte antica, il racconto di una produzione di opere d’arte ridotte in frammenti invece che incorniciate nelle sale delle pinacoteche.

Dalla metà del Settecento è stata infatti prevalentemente questo. Ma già la scoperta della preistoria dell’Uomo e l’espansione coloniale con i suoi scavi alla ricerca delle civiltà sepolte dell’intero pianeta, e poi nel Novecento la Scuola delle Annales, con l’esplosione del concetto di documento storico, l’incontro con le scienze, lo sviluppo delle archeologie delle età a noi più vicine hanno provocato un ampliamento dei compiti dell’archeologia incommensurabile con quelli della sua prima infanzia. Di ciò hanno sofferto in particolare gli studi di storia dell’arte antica ed oggi giustamente ci si interroga sui modi migliori di ricomporre nello stesso alveo, in una sintesi più matura, questa importantissima specializzazione degli studi archeologici con l’orizzonte di una disciplina che ha come fine lo studio delle civiltà umane condotto a partire dalle tracce delle loro attività materiali.

Perché qui sta il punto. Archeologia e storia dell’arte non sono due discipline sorelle, due sfere colorate appese l’una accanto all’altra sull’albero della ricerca. La storia dell’arte (compresa l’arte antica e, a maggior ragione, quella medievale moderna e contemporanea) studia la produzione artistica di un’epoca, di una regione, di una cultura. In  questo senso è assai più vicina alla storia della letteratura o della musica: la Commedia di Dante e gli affreschi di Giotto ad Assisi sono prodotti artistici e letterari, e in  quanto espressione del loro tempo vengono studiati, rivissuti, interpretati con i metodi delle relative discipline.

L’archeologia non studia ‘prodotti archeologici’, semplicemente perché questi non esistono. Recupera, studia e interpreta resti materiali mobili e immobili delle civiltà trascorse, che solo nel momento in cui vengono sottoposti ai metodi della conoscenza archeologica diventano, appunto, archeologici. Tra questi sono i più umili cocci, i resti di semi o di ossa, i rocchi di una colonna crollata come le più eccelse manifestazione dell’arte, antica o no che sia. L’archeologia è quindi una grande scatola in cui sono virtualmente conservate le memorie materiali del passaggio dell’uomo sul pianeta: i resti del lavoro umano nella sua infinita fatica di convivere con i suoi simili e con l’ambiente che tutti ci accoglie.

Se non diradiamo le nebbie create da questo secolare equivoco, rischiamo di continuare a non capirci. E quindi non ci capiamo neppure quando interveniamo nella cronaca quotidiana, alimentata da questa fase concitata prodotta dalle iniziative di riforma del ministro Franceschini, tra le quali si inscrive anche la nascita di un nuovo  Istituto Centrale di Archeologia, di cui non conosciamo neppure ancora il nome.

Salvatore Settis su queste stesse pagine ha espresso contrarietà ad una ipotesi (peraltro ancora non formulata) che intenda l’archeologia “come topografia e tecnica di scavo”, dal momento che un’archeologia senza la storia dell’arte antica sarebbe “quanto meno stravagante”. Non credo che una personalità come Settis sia vittima di quell’atavico disprezzo idealistico per le tecniche che tanti danni ha arrecato alla cultura italiana di quest’ultimo secolo. E naturalmente può legittimamente argomentare che archeologia e storia dell’arte antica siano la stessa cosa. Mi interessa piuttosto il fatto che anche lui individui nell’arcaico Istituto Nazionale di archeologia e storia dell’arte un possibile contenitore del nuovo Istituto. Dico arcaico perché, se quell’Istituto, fondato da Benedetto Croce quasi un secolo fa,  da decenni langue, come dice Settis, “per disattenzione dei governi, difetti statutari e carenza di fondi”, bisogna anche dire che la sua incidenza culturale è stata fin qui minima, e la sua capacità di proposta non risulta pervenuta, e questo nonostante sia stato diretto per lunghissimi periodi di tempo da illustri colleghi, ora commissari (dal 1952 al 1997) ora presidenti, che non hanno certo brillato finora per iniziativa.

Quell’Istituto, oggi di diritto privato ma controllato dal Mibact, ha smarrito da tempo il senso della sua missione, che era quella di tenere insieme in tutt’altra temperie culturale gli studi di archeologia e di storia dell’arte, e andrebbe nuovamente riempito di contenuti. Per Settis questo contenuto si sintetizza in un periodo (‘Dai Greci a noi’) “esteso all’intero arco della storia dell’arte”. Per altri potrebbe essere di altra natura.

Un Istituto Centrale per l’archeologia potrebbe, ad esempio, progettare le procedure scientifiche per lo studio, la tutela e la valorizzazione del patrimonio archeologico; realizzare strumenti per la pianificazione territoriale, la divulgazione scientifica e il turismo culturale; potrebbe essere  il centro di raccordo con enti di ricerca europei e con altre organizzazioni internazionali. In dettaglio, potrebbe lavorare alle codifiche della documentazione del patrimonio (d’intesa con l’ICCD), alle procedure della manutenzione di monumenti e siti (d’intesa con l’ISCR), sviluppare sistemi informativi, modelli predittivi, modalità di accesso alle banche dati, gestire laboratori centrali per le scienze applicate allo studio dei manufatti di qualsiasi natura, o coordinarne la rete nazionale.

Oppure potrebbe svolgere un’opera preziosa di consulenza per il Mibact, predisponendo linee guida, definendo gli standard operativi in ambiente terrestre e subacqueo, valutando e monitorando la qualità di progetti di interesse nazionale, offrendo un supporto alle missioni italiane all’estero, stringendo accordi veri con il mondo della formazione e della ricerca (Università, CNR, Scuole straniere operanti in Italia).

Qualcuno potrebbe individuare nell’Istituto Superiore di Sanità un modello cui ispirarsi per promuovere non la tutela della salute pubblica, ma la valorizzazione del patrimonio culturale per la tutela della salute mentale e psicologica dei cittadini, promuovendo sperimentazioni metodologiche  e tecnologiche in collaborazione con le soprintendenze (le nostre aziende ospedaliere). Potrebbe esercitare funzioni di controllo su richiesta del Ministro e accertamenti ispettivi, collaborando all’elaborazione della programmazione.

Sono molte, come si vede, le funzioni che un tale organismo potrebbe assumere, magari tornando anche ad offrire il luogo istituzionale di incontro tra due discipline, archeologia e storia dell’arte, che hanno preso strade sempre più diverse, ma che possono ritrovarsi ad un livello più alto di considerazione del patrimonio storico e artistico, che superi le gabbie dell’idealismo crociano e si misuri con l’applicazione del ventaglio dei metodi moderni allo studio di ogni prodotto del lavoro umano, e quindi anche di un’opera d’arte, come di una sua lacuna.

Qualcuno sostiene che il nuovo Istituto sia stato pensato come compensazione per il mondo dell’archeologia, turbato dall’accorpamento delle soprintendenze disciplinari. Se così fosse, la compensazione rischierebbe paradossalmente di accrescere il malcontento e la discordia. A ragione Settis suggerisce che occorre avere chiara fin dall’inizio la meta che ci si propone. Per questo sarebbe utile che il Ministro aprisse una consultazione trasparente e partecipata, che faccia emergere obiettivi condivisi e metta in campo gli strumenti più idonei a conseguirli: sarebbe un bel segnale di coinvolgimento per una comunità disorientata che può esprimere ancora una grande capacità di iniziativa se la si aiuta a ritrovare il senso del suo impegno.

Daniele Manacorda

Università Roma Tre

Pubblicato in Il Sole 24 Ore, Domenica 20.3.2016
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