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In nome dell'art. 9

In nome dell'articolo 9

Il ritorno alla Costituzione repubblicana

 

Visto Dal FAI Dopo anni di scarsa rilevanza, la discussione intorno alla riforma messa in atto da Franceschini già in due fasi e il tema della valorizzazione e della tutela del patrimonio artistico, museale, paesaggistico hanno ritrovato una nuova centralità politica e culturale. Ecco i punti cruciali del dibattito in corso, raccontati da Giuliano Volpe, presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e Paesaggistici del MiBACT

La scorsa estate gli italiani in spiaggia sotto l’ombrellone discutevano animatamente delle scelte dei direttori dei 20 grandi musei dotati di autonomia amministrativa introdotti dalla riforma del ministro Dario Franceschini, con divisioni tra chi polemizzava a proposito della scelta di studiosi stranieri e chi difendeva queste novità. Non più quindi solo discussioni sulle scelte di un allenatore di una squadra di calcio e sugli acquisti di calciatori, ma addirittura sulla composizione della squadra dei direttori di musei! Una novità assoluta. E non passa giorno senza che non ci sia nuova attenzione ai beni culturali, dalle domeniche con ingresso libero nei musei ai caschi blu della cultura, dalla liberalizzazione delle immagini alla riforma delle soprintendenze. Il patrimonio culturale, insomma, è tornato a interessare gli italiani. E sta anche risvegliando il mondo degli specialisti e dei docenti universitari, da tempo un po’ assopito e afono. È senza dubbio uno dei risultati da riconoscere all’azione del ministro Franceschini. 
Un’altra importante novità consiste nel fatto che la riforma del MiBACT, pur avviata sotto il peso della spending review, non sia l’ennesima riorganizzazione amministrativa (una delle tante degli ultimi decenni), ma il frutto di un disegno politico-culturale complessivo, che ha alcuni punti fermi: la pari dignità tra tutela e valorizzazione; la creazione di un sistema museale nazionale; l’autonomia gestionale e scientifica di musei e parchi archeologici; attenzione a educazione e ricerca; la sperimentazione di nuove forme di gestione; il superamento di una visione elitaria della cultura.
Può anche non piacere e non essere condivisa – è legittimo – ma è finalmente un progetto organico, sia pure attuato attraverso varie misure, a partire dall’art bonus. Al momento si sono raccolti oltre 60 milioni e si contano quasi 2200 mecenati, in gran parte semplici cittadini che hanno donato meno di 1000 euro: una vera rivoluzione che indica, insieme ai sempre maggiori segnali di partecipazione attiva, un nuovo rapporto tra cittadinanza e patrimonio culturale, troppo a lungo considerato una sorta di “proprietà privata” da parte di una élite. 
Le critiche e le proteste, spesso strumentali, in un paese restìo alle novità sono fisiologiche, ma ancora una volta si traducono in un “no” a qualsiasi cambiamento, senza che si avanzi nessuna proposta alternativa, che non sia la mera difesa dell’esistente. 
(Ho trattato questi temi nel mio Patrimonio al futuro. Un manifesto per i beni culturali e il paesaggio, Electa, Milano 2015).

Valorizzazione vs tutela?

I critici dei cambiamenti in atto sostengono che con essi si stia contraddicendo lo spirito e la lettera dell’articolo 9 della Costituzione. Sono convinto esattamente del contrario. È, infatti, necessario superare artificiosi quanto inattuali conflitti tra tutela e valorizzazione, proprio nel nome dell’art. 9 che, al secondo comma, afferma sì che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», ma che nella prima precisa che «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica». Nel dettato costituzionale si lega, cioè, strettamente la tutela alla promozione della cultura, cioè a quella che oggi chiamiamo “valorizzazione”. I padri costituenti (e nello specifico Concetto Marchesi e Aldo Moro) non scelsero a caso le parole “Repubblica” e “Nazione”, evitando di utilizzare riduttivamente solo il concetto di “Stato”.  È una cosa spesso ignorata da chi sembra identificare Repubblica (anzi res publica) con Stato, e addirittura con un solo Ministero dello Stato. Dunque non solo la tutela è una responsabilità comune dei cittadini, ma è anche strettamente connessa alla promozione della cultura, allo sviluppo della conoscenza (che è lo strumento primo per consentire ai cittadini di riappropriarsi del loro il patrimonio culturale), alla ricerca, la cui libertà è sancita dall’art. 33 (mentre ancora oggi vigono norme da stato borbonico ad esempio in materia di “concessioni di scavo”). 
Nel dibattito attuale emerge una bizzarra (quanto significativa) anomalia: chi difende la sola tutela, continua a sottovalutare la valorizzazione, ritenuta cosa secondaria e sostanzialmente equiparabile a mercificazione, colpevole di macchiare la purezza della cultura. Chi invece, come chi scrive, ritiene utile e opportuno un riequilibrio e un’integrazione tra le due componenti, non sottovaluta affatto la tutela (come si può infatti valorizzare un bene che non si tutela?), ma semmai chiede una tutela più attiva, più propositiva, più progettuale (come nei moderni Piani Paesaggistici Territoriali, non a caso in grave ritardo nel nostro Paese), e non quella vecchia (e ormai del tutto inefficace, come è sotto gli occhi di tutti), fatta solo di divieti e di comportamenti polizieschi.

Visione “olistica”: una bestemmia!

La seconda fase della riforma Franceschini completa il disegno avviato con la riforma dell’agosto 2014: dopo aver unificato soprintendenze architettoniche e storico-artistiche, ora si accorpano quelle archeologiche, istituendo cioè le soprintendenze uniche (“Archeologia, Belle Arti e Paesaggio”). Perché? Innanzitutto per una ragione culturale: s’integrano competenze prima frammentate affermando una visione organica, unitaria, globale, olistica del patrimonio culturale, che tutti ormai concordemente considerano un insieme organico, diffuso in tutto il territorio italiano. Ebbene, solo un approccio globale e integrato, realmente multi- e interdisciplinare, per così dire “territorialista”, può consentire di affrontare, nello studio come nella tutela, la complessità di un territorio. È così il paesaggio a costituire l’elemento unificante e ad assumere un ruolo centrale nelle politiche di tutela e valorizzazione. Le nuove soprintendenze, operanti in ambiti più piccoli, non negano le specializzazioni ma le integrano, prevedendo al loro interno vari settori: archeologia, arte, architettura, paesaggio, beni immateriali, educazione e ricerca. Si tratta organismi di tutela radicati nei territori, più vicini alle comunità locali, in grado di parlare con una voce unica, in maniera più rapida, superando le precedenti sovrapposizioni, che tante volte hanno portato a pareri divergenti, a ritardi, a confusione, a tutto danno del cittadino, degli altri enti pubblici, oltre che del patrimonio. Si fa riferimento al problema del silenzio-assenso (in caso di mancata risposta entro 90 giorni il silenzio equivale a parere favorevole) introdotto dalla legge Madia che riforma la Pubblica amministrazione. È una norma anche a mio parere sbagliata, ma è al tempo stesso necessario che uno Stato moderno dia risposte certe, univoche e rapide ai cittadini, agli enti locali, alle imprese. Quanto invece al ruolo dei prefetti previsto dalla stessa legge, il ministro Franceschini e il Governo hanno sempre assicurato che non interverranno nella sostanza delle decisioni relative ai beni culturali e che la loro funzione sarà di mero coordinamento territoriale (è quanto avviene ad esempio in Francia da sempre). Il parere del soprintendente, proprio perché unico, sarà più forte e autorevole. Bisognerà vigilare che così sia, ma si evitino anche in questo caso allarmismi e catastrofismi.
La soppressione delle soprintendenze archeologiche viene da alcuni interpretata come la fine dell’archeologia, la morte della tutela archeologica. L’archeologia in realtà sarà presente in tutte le 39 soprintendenze. E cresce il numero di musei e parchi archeologici, da Paestum a Ercolano, dai Campi Flegrei all’Appia e a villa Adriana, dal Museo Nazionale Romano ai musei archeologici di Villa Giulia, di Taranto, Reggio Calabria, Napoli, oltre alle soprintendenze speciali di Roma e Pompei. L’idea che il patrimonio archeologico possa essere distinto da quello architettonico, artistico e soprattutto da quello paesaggistico, è metodologicamente insostenibile. Cosa c’è di “pericoloso” per gli archeologi nel lavorare fianco a fianco con architetti, storici dell’arte, demoantropologi?  Bisognerà anzi prevedere altre competenze specialistiche: geologi, bioarcheologi, archeometristi, restauratori, informatici, ingegneri, economisti della cultura, esperti di comunicazione, etc. Nuove e stimolanti sfide si aprono per gli archeologi, che potranno mettere i loro metodi stratigrafici e contestuali a disposizione delle altre discipline per una tutela integrale e organica del patrimonio culturale. Inoltre presso il MiBACT sorgerà un Istituto Centrale per l’Archeologia (sarebbe preferibile la denominazione di Istituto Superiore per la Ricerca Archeologica, ma ovviamente non è questione di sigle), come luogo di sperimentazione e di supporto tecnico-scientifico all’attività delle soprintendenze (e spero anche delle missioni italiane all’estero), in collaborazione con le università e il CNR. Una struttura da anni invocata che dovrà favorire un innalzamento della qualità media della ricerca archeologica sul campo. 
C’è chi sostiene (ma è un’autentica falsità) che le soprintendenze uniche saranno dirette da architetti che – a detta dei critici, non senza un po’ di corporativismo – non sarebbero in grado di comprendere la “specificità” del bene archeologico.  È un argomento debole e pretestuoso: la soprintendenza archeologica di Roma è al momento diretta da un architetto, e non risulta che la tutela del patrimonio archeologico abbia nel frattempo conosciuto disastri. Al vertice delle nuove soprintendenze in realtà ci saranno archeologi, architetti, storici dell’arte e altri specialisti: il loro compito sarà avvalersi di tutte le competenze e coordinarle in una tutela unitaria del territorio. 
Alcune delle preoccupazioni avanzate da varie parti sono fondate e condivisibili. Si temono i problemi provocati da un nuovo scossone organizzativo su un organismo ormai debilitato, stanco, con personale molto invecchiato (l’età media è ormai pericolosamente vicina a 60 anni), demotivato e privo di mezzi e strumenti operativi. I problemi logistici di riorganizzazione di uffici, archivi, inventari (anche a causa di gravi ritardi nella digitalizzazione) sono gravi, ma tutti risolvibili se ci sarà la volontà. Cosa impedisce, ad esempio, di conservare un laboratorio di restauro o una biblioteca al servizio di tutte soprintendenze territoriali nella stessa regione? Quanto al personale e alle risorse, come ignorare che una svolta è in atto? Il prossimo concorso per 500 tecnici-scientifici rappresenta una boccata d’ossigeno, e bisognerà proseguire con un turn over continuo, annuale; anche se siamo ancora lontani da un finanziamento adeguato dei beni culturali, le risorse sono tornate a crescere. È indubbio, però, che difficilmente si sarebbero ottenuti nuovi posti e risorse senza una profonda riforma del sistema.
Anch’io non nascondo alcune perplessità. Ritengo che sarebbe stato preferibile realizzare questa riforma in un unico momento nel 2014. In quell’occasione avevo proposto l’istituzione di soprintendenze/direzioni uniche regionali, articolate all’interno in settori/dipartimenti specialistici (come quelli appena introdotti), comprendendo anche il polo museale regionale, e distribuite territorialmente in centri operativi unici. Ma quella proposta forse non fu pienamente compresa e fu unanimemente contrastata, anche da chi oggi sostiene che sarebbe stata la soluzione migliore.

«Spalancare le porte alle persone di tutto il mondo»

La vera rivoluzione nel campo dei beni culturali consiste appunto nella necessità di porre il cittadino, il visitatore, il turista al centro dell’attenzione. Si pensi, a tale proposito, ai nostri musei, ai parchi archeologici e ai luoghi della cultura, ancora troppo spesso non ospitali, esclusivi, respingenti, privi di servizi essenziali (non a caso ancora oggi definiti ‘aggiuntivi’) e di supporti didattici adeguati, finalmente basati su una comunicazione chiara e coinvolgente e non più legata all’uso di un insopportabile linguaggio ipertecnicista, esoterico, incomprensibile, che provoca spesso nel visitatore un senso di inadeguatezza e di spaesamento. 
Vengono alla mente le parole, come sempre forti e chiare, recentemente riservate ai musei da papa Francesco: «I musei devono accogliere nuove forme d’arte. Devono spalancare le porte alle persone di tutto il mondo. Essere uno strumento di dialogo tra le culture e le religioni, uno strumento di pace. Essere vivi! Non polverose raccolte del passato solo per gli “eletti” e i “sapienti” ma una realtà vitale che sappia custodire il passato per raccontarlo agli uomini di oggi» (La mia idea di arte, a cura di T. Lupi, Mondadori, Milano 2015). Lo stesso papa Francesco nell’udienza del 9 settembre 2015 aveva detto: «Una Chiesa davvero secondo il Vangelo non può che avere la forma di una casa accogliente, con le porte aperte, sempre. Le chiese, le parrocchie, le istituzioni, con le porte chiuse non si devono chiamare chiese, si devono chiamare musei!». Sono parole dure, che segnano l’abissale distanza che separa, anche nell’immaginario collettivo, un museo da un luogo aperto, accogliente, inclusivo, piacevole, divertente. Ecco il significato di creare un sistema museale nazionale, di attribuire autonomia ad una serie di grandi musei, di istituire i poli museali regionali: per cambiare l’idea stessa di museo, vitale, con servizi adeguati, un uso sapiente delle tecnologie, capaci di proporre un racconto, di emozionare, di contribuire al miglioramento della qualità della vita.

Più Stato e più Privato

Altra contrapposizione ormai anacronistica è quella tra pubblico e privato: si tratta di un falso problema, perché il reale conflitto è tra interesse privato e interesse pubblico: e non c’è dubbio che quest’ultimo vada sempre difeso e garantito, anche quando la gestione dovesse essere affidata a privati. Non si tratta, quindi, di chiedere meno Stato e più privato, ma, al contrario, più Stato e più privato. Con uno Stato (ma lo stesso vale per Regioni e Comuni) che non deroghi ai propri doveri, ma che svolga soprattutto una funzione di indirizzo, di controllo, di valutazione, fissando regole trasparenti e facendole rispettare. Si tratta, cioè, di abbandonare definitivamente quella pericolosa concezione “proprietaria”, che è alla base anche di un vero conflitto di interesse tra indirizzo-controllo e gestione, ancora oggi nelle stesse mani, e di favorire le tante energie e creatività presenti nei vari territori, sostenere la nascita e il consolidamento di mille iniziative diverse, indirizzandole, coordinandole, monitorandole. Sarebbe questo un modo per far sviluppare numerose nuove occasioni di lavoro qualificato, in particolare per i tanti giovani formati nelle Università, con indubbi vantaggi anche per lo sviluppo di un vero turismo culturale, oggi assai poco organizzato e strutturato, che rappresenta indubbiamente uno dei principali assi di sviluppo del nostro Paese, e in particolare delle regioni del Mezzogiorno. 
Questa visione, profondamente innovatrice, è coerente con le principali tendenze internazionali in materia di beni culturali, a partire dalla rivoluzionaria Convenzione di Faro (STCE n. 199, del 27.10.2005, sottoscritta dall’Italia il 27.2.2013) – da noi ancora poco nota -, che ha introdotto  un concetto innovativo di “eredità culturale”, «un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione» e di “comunità di eredità”, «un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future». 
Una visione molto dinamica dell’eredità culturale, dunque, assai lontana dalla ancora persistente considerazione del patrimonio culturale come un “valore in sé”, immobile e immodificabile, che ha finito per affermarne una visione statica: un’eredità ricevuta dai nostri padri, da curare, e da trasmettere ai nostri figli, attribuendo al presente un ruolo di mera ricezione e trasmissione. L’eredità culturale, al contrario, andrebbe riconquistata, conosciuta, apprezzata, arricchita di nuovi significati. Cioè vissuta, con consapevolezza e con responsabilità. 
Profonde solo le analogie con quanto scrive un noto psicanalista, Massimo Recalcati (Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013). Citando Freud, che a sua volta riprendeva un celebre detto di Goethe («ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero»), Recalcati sottolinea che «l’eredità non è l’appropriazione di una rendita, ma è una riconquista sempre in corso. Ereditare coincide allora con l’esistere stesso, con la soggettivazione, mai compiuta una volta per tutte, della nostra esistenza. Noi non siamo altro che l’insieme stratificato di tutte le tracce, le impressioni, le parole, i significanti che provenendo dall’Altro ci hanno costituito». Non ci potrebbe essere immagine migliore per descrivere la complessità stratigrafica della nostra eredità culturale, presente nei paesaggi attuali, nelle campagne, nelle città, nel patrimonio materiale e immateriale, nelle comunità locali.
È un atteggiamento di “destra”, secondo Recalcati, quello che assimila «l’eredità alla mera ripetizione di ciò che è già stato. Se ereditare è un movimento di riconquista ... l’ereditare non può ridursi a essere una semplice ripetizione del passato, un movimento passivo di assorbimento di ciò che è già stato. Ereditare non è la riproduzione di quello che è già avvenuto. Anzi, la ripetizione del passato, l’eccesso di identificazione, di incollamento, di alienazione, il suo assorbimento passivo e la sua venerazione sono modi in cui l’atto dell’ereditare fallisce. Per questo Freud sottolinea che l’eredità è innanzitutto una decisione del soggetto, un movimento in avanti di “riconquista”». E ancora: «È la nevrosi che tende a interpretare l’eredità come ripetizione, fedeltà assoluta al proprio passato, infantilizzazione perpetua del soggetto, obbedienza senza critica, dipendenza sena differenziazione, conservazione monumentale e archeologica del passato. Lo sguardo dell’erede non è mai solo uno sguardo rivolto all’indietro». Uno sguardo rivolto, cioè, al presente e al futuro, e non solo immobilizzato nel passato.
Si tratta di un vero ribaltamento di prospettiva, che pone al centro i cittadini, le comunità locali, le persone. Come sottolinea la Convenzione «chiunque da solo o collettivamente ha diritto di contribuire all'arricchimento dell'eredità culturale», ed è dunque necessario che i cittadini partecipino «al processo di identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione dell’eredità culturale» nonché «alla riflessione e al dibattito pubblico sulle opportunità e sulle sfide che l’eredità culturale rappresenta». Protagoniste sono le persone, per cui bisogna «promuovere azioni per migliorare l’accesso all’eredità culturale, in particolare per i giovani e le persone svantaggiate, al fine di aumentare la consapevolezza sul suo valore, sulla necessità di conservarlo e preservarlo e sui benefici che ne possono derivare». 
Come ha evidenziato un bravo economista della cultura, Massimo Montella, la Convenzione indicando il diritto, individuale e collettivo, «a trarre beneficio dall’eredità culturale e a contribuire al suo arricchimento», rende esplicita la necessità che l’eredità culturale sia finalizzata all’arricchimento dei «processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale e di pianificazione dell’uso del territorio, ...». Pertanto «l‘idea di patrimonio culturale proposta a Faro postula un valore che è d’uso e vede nella valorizzazione il fine e la premessa della tutela, perché il patrimonio culturale deve essere finalizzato ad elevare la qualità di vita immateriale e materiale delle persone e perché non potrà essere conservato contro la volontà della collettività. Non contrappone, dunque, economia e cultura, ma le ritiene anzi convergenti e coincidenti perfino» (in La "Convenzione di Faro" e la tradizione culturale italiana, Macerata 5-6.11.2015, suppl. a Il capitale culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage, 5/2016, c.s.). 
Come ha opportunamente sostenuto di recente l’archeologo Daniele Manacorda, si passa, finalmente, dal «diritto dei beni culturali» al «diritto ai beni culturali». Una concezione così ampia e dinamica dell’eredità culturale produce cascata una revisione profonda di visioni tradizionali, che da anni bloccano il dibattito in sterili contrapposizioni. Si archivia, infatti, l’idea del «valore in sé», statica, immobile e immodificabile, del patrimonio culturale, per proporre una idea di «valore relazionale». Si supera l’idea di un’eredità ricevuta dai nostri padri, da conservare e curare, e da trasmettere ai nostri figli, che ha finito per attribuire a noi un mero ruolo di trasmettitori. L’eredità culturale, al contrario, andrebbe riconquistata, conosciuta, apprezzata, arricchita di nuovi significati. Vissuta, insomma. Con responsabilità, con rispetto, con amore, ma vissuta!
Il ministro Franceschini ha più volte ricordato quanto ebbe a dire assumendo l’incarico il giorno del giuramento al Quirinale, il 22 febbraio 2014: che sentiva, cioè, la responsabilità di assumere la guida «del più importante Ministero economico d’Italia». Cosa significa? Mercificare la cultura, svalutandone la purezza? Svendere il patrimonio culturale? Nient’affatto! Come ho già avuto modo di precisare in altra sede, significa, semmai «finalmente evidenziare la centralità che i beni culturali e il paesaggio devono assumere nelle strategie del Paese per costruire nuove e diverse forme di sviluppo, per creare lavoro di qualità, per far sentire a tutti i cittadini, e non solo a una ristretta élite, che con la cultura si può anche mangiare. E anche per riconquistare un ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo» (Patrimonio al futuro, cit.).

Verso il terzo millennio

Aggiustamenti, miglioramenti e completamenti saranno necessari, per esempio, con un rapporto più stretto e integrato tra soprintendenze e università (i cd. “policlinici dei beni culturali”). Il vero riformismo produce riforme progressive, anche imperfette, bisognose di aggiustamenti successivi. La riforma perfetta è quella che non si realizza mai!
C’è da augurarsi, in conclusione, che non s’ignorino critiche fondate, che si sviluppi un confronto, che si avanzino proposte concrete per una migliore applicazione delle riforme, e soprattutto che si evitino le barricate e la criminalizzazione di chi la pensa in modo diverso. C’è bisogno dell’impegno di tutti per entrare finalmente nelle politiche del patrimonio culturale del terzo millennio.

 

Mercoledì 2 Marzo 2016

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