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L'aggressività e i veleni che dominano i rapporti sociali

Da parecchio tempo pensavo di dedicare una di queste mie note al tema dell’incattivimento sociale. Me lo ha sollecitato anche il direttore di questo giornale, che ha nel suo DNA, fin dal titolo della testata, un atteggiamento certamente non compiacente nei confronti di istituzioni, partiti, associazioni ed anche singole persone. Ma per un giornale che ha deciso di essere un’anima critica e di praticare un giornalismo d’inchiesta si tratta di un atteggiamento quasi doveroso, anche se io stesso a volte non condivido certi eccessi. Non è, però, del diritto di critica, anche dura, che voglio parlare (un diritto peraltro essenziale e vitale per ogni democrazia), ma di qualcosa di diverso e di molto grave. Mi riferisco al livore, all’aggressività, ai veleni che ormai caratterizzano i normali rapporti sociali nel nostro Paese. Si tratta di aspetti anche, per certi versi, comprensibili in un momento di grave crisi e di vera e propria disperazione, che, però, stanno trasformando profondamente la natura e l’immagine di quello che un tempo era considerato il Bel Paese, il luogo non solo ricco di cultura e di paesaggi mozzafiato, ma anche sinonimo di cordialità, di simpatia e di gentilezza. Come ha recentemente scritto Michele Serra in una delle sue brillanti e acute rubriche su La Repubblica (24.3.2013, p. 24), diverso era un tempo «il nostro segno distintivo: il mito della dolce vita e del buon vivere ci rendeva ‘simpatici’ e invidiati malgrado la fama di pasticcioni e di furbi», mentre ora «l’Italia sta diventando un paese ‘cattivo’, dove il malanimo reciproco è fuori controllo, le ostilità sociali non più temperate dalla politica», tanto che basta andare all’estero, anche in paesi ben più poveri del nostro, per accorgersi della differenza, trovando altrove una situazione di normale urbanità, di normale educazione, di normale mancanza di aggressività. Una normalità che si è andata perdendo nelle relazioni sociali, nella vita urbana, nel traffico, negli uffici pubblici.

C’è un clima di violenza e aggressività anche nella nostra città e nel nostro territorio, che la rete e i social network enfatizzano: basti frequentare alcune ‘discussioni’ in alcuni gruppi e a volte anche sulle pagine di singole persone per cogliere questo clima. Provate a inserire su Facebook una pacata riflessione su un qualsiasi tema di carattere generale o su una qualsiasi questione riguardante Foggia e troverete nel giro di pochi minuti interventi velenosi, invettive, parolacce. In breve tempo inevitabilmente le polemiche si moltiplicano, se ne sviluppano altre tra gli intervenuti, senza più alcun legame con il tema iniziale. È un’esperienza vissuta varie volte anche personalmente. Al di là dei professionisti della polemica, si registra una diffusa tendenza all’aggressività, più o meno gratuita.

Si tratta indubbiamente di uno dei risultati della crisi economica e sociale, quasi fossimo in uno stato di guerra civile o di fame (ma ci siamo assai vicini, se non si prenderanno misure drastiche e urgenti), cioè in quelle situazioni che normalmente alimentano il conflitto sociale e la violenza nei rapporti tra le persone. In altri paesi che versano in condizioni di maggiore difficoltà, però, non si manifesta un tale livello di incattivimento. È forse anche il risultato di certa politica che da anni non solo rappresenta (cosa ovvia in democrazia) ma soprattutto incarna, enfatizzandone e giustificandone i difetti, il peggio di quell’Italia volgare e incolta, imbrogliona, priva di senso civico, che evade le tasse, che considera normali il l’abusivismo e la raccomandazione, che non ama fare la coda, che urla al telefonino, quell’Italia perfettamente rappresentata da tante popolari trasmissioni televisive. Si tratta di una responsabilità che ricade anche sull’altra parte politica, principalmente di sinistra, ma non solo, che guarda con fastidio e con la ‘puzza sotto il naso’ a questa ormai preponderante fascia sociale, mostrandosi anche incapace di capirla e di farsi capire e, soprattutto, di rappresentarla in maniera diversa. È la crisi definitiva anche di una politica ‘pedagogica’, che si ponga l’obiettivo di migliorare le persone. Rischia di essere la crisi definitiva anche delle forme della rappresentanza democratica tradizionale. Il risultato è una sempre maggiore polarizzazione sociale, una frammentazione delle forme della rappresentanza, la mutazione dei partiti in tifoserie, una metamorfosi dei cittadini in ultras, una trasformazione del confronto civile, capace di esprimere le proprie idee e interessato a capire quelle degli altri, in rissa. La risposta non può essere, però, solo il rimpianto dei bei tempi andati e delle vecchie forme partitiche e sindacali. Bisognerebbe essere capaci di innovare profondamente, di utilizzare le nuove forme della partecipazione e della comunicazione per dare nuova linfa alla democrazia, di realizzare reali prassi di trasparenza e di legalità, di dare spazio e voce alle richieste, a volte anche scomposte e ambigue, di un nuovo protagonismo.

Altrimenti la pratica politica del ‘vaffa’ lanciato contro tutto e contro tutti, l’orgoglioso rifiuto di distinguere, l’inclusione in una indeterminata ‘casta’  di tutti, compreso chi in questi anni difficilissimi si è impegnato personalmente in tanti campi per difendere la legalità, per affermare forme di giustizia sociale, per conquistare diritti e sviluppare battaglie culturali, per sperimentare pezzi di cambiamento, rischierà di trasformare definitivamente quella che viene presentata come una pratica liberatoria di nuove energie e l’affermazione di un nuova partecipazione in una tendenza sociale e politica assai pericolosa di una nuova ‘caccia alle streghe’.

 

Articolo pubblicato in L'Attacco, 29.3.2013, pp. 1, 22


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