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La convenzione di Faro per una nuova visione del patrimonio culturale

È per me un piacere oltre che un onore intervenire in questa cerimonia che premia una amica cara, una collega prestigiosa, una protagonista del mondo del patrimonio culturale degli ultimi decenni, con una breve riflessione.

Il 13 ottobre del 2015 il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa adottava la ‘Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società’, presentata il 27 ottobre dello stesso anno a Faro in Portogallo: un documento profondamente innovativo, direi anzi rivoluzionario, nella visione stessa del patrimonio culturale e del suo ruolo nella società contemporanea, che il Governo italiano ha sottoscritto solo nel 2013 e il Parlamento ha finalmente ratificato lo scorso anno. Al momento sono 21 gli Stati membri del Consiglio d'Europa che l’hanno ratificata (Armenia, Austria, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Finlandia, Georgia, Lettonia, Lussemburgo, Montenegro, Norvegia, Portogallo, Moldova, Serbia, Slovacchia, Slovenia, ex Repubblica Jugoslavia di Macedonia, Ucraina, Ungheria, Svizzera e Italia) mentre altri 6 l'hanno firmata, tra cui la Spagna. Purtroppo tra i Paesi che non hanno ancora né firmato né ratificato ci sono paesi importanti come Francia, Germania, Regno Unito, Grecia e Russia.

La Convezione fu concepita all’indomani delle tragiche guerre balcaniche, le prime scoppiate nel cuore dell’Europa dopo un cinquantennio di pace; guerre che videro non solo stragi, violenze inaudite, deportazioni di massa, ‘pulizie etniche’ ma anche distruzioni sistematiche di beni culturali per eliminare le tracce di intere culture. Inoltre il 12 marzo del 2001 i talebani distruggevano i Buddha di Bamiyan, scuotendo le coscienze del mondo intero, e l’11 settembre dello stesso anno venivano colpite le torri gemelle, anch’esse sentite dagli islamisti quali simboli materiali di una civiltà che si vorrebbe annientare.

Ecco perché nel 2005, dopo che nel 2000 era stata lanciata la Convenzione del Paesaggio (Firenze 2000), si volle una specifica Convenzione dedicata al patrimonio culturale da parte del Consiglio d’Europa, che com’è noto è nato nel 1949 dopo la II guerra mondiale e raccoglie oggi 47 stati membri e non ha nulla a che fare con la UE (mi scuso molto per questa precisazione pedante, ma ho verificato in varie occasioni, anche nel corso di un’audizione parlamentare in Commissione Esteri che non sono pochi a ignorarne la differenza!).

La Convenzione propone una visione pluralista, inclusiva e rispettosa delle diversità del patrimonio culturale: “il patrimonio culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che alcune persone identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni costantemente in evoluzione. Esso comprende tutti gli aspetti dell'ambiente derivati dall'interazione nel tempo fra le persone e i luoghi”.

Il PC non sentito quindi come una clava identitaria da brandire ma come uno strumento di pace e di conoscenza e rispetto reciproco con lo “scopo di salvaguardare e promuovere quegli ideali e principi, fondati sul rispetto dei diritti dell’uomo, della democrazia e dello stato di diritto, che costituiscono il loro patrimonio comune”, come si sottolinea nel preambolo. Sottolinea “il valore e il potenziale di un’eredità culturale usata saggiamente come risorsa per lo sviluppo sostenibile e per la qualità della vita, in una società in costante evoluzione” e riconosce “che ogni persona ha il diritto, nel rispetto dei diritti e delle libertà altrui, ad interessarsi al patrimonio culturale di propria scelta, in quanto parte del diritto a partecipare liberamente alla vita culturale” (preambolo). Ma soprattutto – ed è questa forse la novità principale – affida un protagonismo finora impensabile alle cosiddette ‘comunità di patrimonio’, “un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici del patrimonio culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future” (art. 2). Sottolineando che “chiunque da solo o collettivamente ha diritto di contribuire all'arricchimento del patrimonio culturale” (art. 5), si sollecita la partecipazione democratica dei cittadini, attribuendo a tutti un ruolo attivo e anche il diritto, individuale e collettivo, “a trarre beneficio dal patrimonio culturale e a contribuire al suo arricchimento” (art. 4). Non a caso la Convenzione evidenzia la necessità che il patrimonio culturale sia finalizzato all’arricchimento dei “processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale e di pianificazione dell’uso del territorio, ...” (art. 8).

Ribadendo in più modi la necessità della partecipazione democratica dei cittadini “al processo di identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione del patrimonio culturale” nonché “alla riflessione e al dibattito pubblico sulle opportunità e sulle sfide che il patrimonio culturale rappresenta” (art. 12), si attribuisce a tutti un ruolo attivo. È impressionante il ribaltamento del punto di vista tradizionale: non più solo quello degli specialisti, dei professori e dei funzionari della tutela, ma anche quello delle comunità locali, dei cittadini, dei fruitori.

Tra gli inviti rivolto ai Paesi sottoscrittori segnalo in particolare quello finalizzato a “promuovere azioni per migliorare l’accesso al patrimonio culturale, in particolare per i giovani e le persone svantaggiate, al fine di aumentare la consapevolezza sul suo valore, sulla necessità di conservarlo e preservarlo e sui benefici che ne possono derivare” (art. 12).

È un testo di straordinaria forza, capace di favorire l’espressione di energie finora represse, perfettamente in linea, con i principi fissati nell’articolo 9 della nostra Costituzione, che stabilisce uno stretto legame tra tutela e promozione dello ‘sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica’ e assegna  il compito della tutela del ‘paesaggio e patrimonio storico e artistico della Nazione’ non già solo allo Stato, né tanto meno a un singolo Ministero, ma alla Repubblica, cioè a tutte le istituzioni pubbliche e all’intera res publica, intesa come comunità dei cittadini. La Convenzione di Faro è, inoltre, coerente con un altro articolo della nostra Costituzione, il 118, che afferma il principio della sussidiarietà e sollecita le istituzioni pubbliche a favorire gli interventi di soggetti privati no profit al servizio di interessi collettivi.

Infine, come la Convenzione sul paesaggio non limita l’azione ai soli paesaggi di pregio ma la estende ai paesaggi della vita quotidiana, compresi quelli degradati delle periferie e delle zone industriali, così la Convenzione di Faro estende il concetto di patrimonio culturale anche a “tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi” (art. 2a) e impone che il patrimonio culturale sia tutelato e protetto non tanto per il suo valore intrinseco ma in quanto risorsa per la crescita culturale e socio-economica. Si propone, cioè, come ha sottolineato un grande economista della cultura recentemente scomparso, Massimo Montella “un profondo rovesciamento complessivo: dell'autorità, spostata dal vertice alla base; dell'oggetto, dall'eccezionale al tutto; del valore, dal valore in sé al valore d'uso e, dunque, dei fini: dalla museificazione alla valorizzazione”.

Premessa irrinunciabile per mettere tutti, o almeno il numero più ampio di persone, nelle condizioni di percepire il valore del patrimonio è la conoscenza, grazie all’educazione al patrimonio, alla formazione, alla comunicazione, campi nei quali il nostro Paese sconta un grave ritardo. L’Italia dispone, infatti, di una lunga e gloriosa tradizione nel ‘diritto dei beni culturali’, ma ha fatto ancora scarsi progressi nel ‘diritto ai beni culturali’. Non a caso la nostra legislazione, risalente, per l’impianto culturale, agli inizi del Novecento, pone le ‘cose’ al centro della tutela, come recita ancora il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio del 2004, (“Il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici. Sono beni culturali le cose immobili e mobili …” art. 1), mentre con la Convenzione di Faro la centralità si sposta sulle persone e sulle ‘comunità di patrimonio’.

Il patrimonio culturale conquista in tal modo un ruolo centrale nella società, soprattutto in un momento in cui appare evidente che la grave crisi sanitaria che stiamo ancora vivendo, che fa seguito alla tragica crisi finanziaria ed economica del 2008, non sia congiunturale, ma strutturale, investe il modello di sviluppo, i modi di vivere, i rapporti intergenerazionali, la distribuzione della ricchezza e delle risorse, ma anche, ancor più in profondità, l’organizzazione sociale e politica.

Ricette improntate a un illusorio ritorno al passato sono profondamente sbagliate. Si rischierebbe ancora una volta di ‘sprecare’ l’occasione offerta dalla crisi per introdurre cambiamenti radicali (Fabio Donato). Sarebbero, infatti, necessarie riforme strategiche, coraggiose e innovative. Anche il patrimonio culturale può e deve offrire il suo contributo per costruire un nuovo modello di sviluppo e di società, a partire da un’economia sana e pulita, sostenibile e compatibile con le reali vocazioni di ogni territorio, in grado di valorizzare e anche di accrescere (e non di consumare e di distruggere) le risorse dei luoghi e delle comunità locali, creando occasioni di lavoro qualificato, accrescendo il ‘benessere’ e migliorando la ‘qualità della vita’ e il ‘welfare’.

In tal senso anche l’alleanza tra turismo e patrimonio risulta assolutamente fondamentale, non già per snaturare il patrimonio culturale ma semmai per rendere più colto il turismo: non più elitario, ma di migliore qualità, più rispettoso dei paesaggi e del patrimonio, e anche più lento e capace di offrire una vera, intesa, piacevole esperienza di vita e di conoscenza delle mille peculiarità culturali dell’Italia e delle popolazioni di ogni parte, anche la più remota, del nostro Paese.

Il mondo dei beni e delle attività culturali ha conosciuto, a partire dal 2014, un processo riformatore, che ha introdotto non poche novità normative e organizzative, dopo decenni di tagli e di grave marginalizzazione: l’Art Bonus, il passaggio dalle soprintendenze settoriali alle soprintendenze uniche per la tutela unitaria del patrimonio culturale in specifici contesti territoriali, l’autonomia attribuita a una serie di grandi musei e parchi archeologici e il reclutamento dei nuovi direttori, l’avvio del sistema museale nazionale, l’istituzione della Scuola del Patrimonio, e molte altre iniziative, come l’anno dei borghi, dei cammini, del cibo, le capitali italiane della cultura, gli Stati Generali del Paesaggio e la Carta Nazionale del Paesaggio, e altre ancora. Sono state riforme importanti, anche se non prive di errori e di cattive applicazioni, che sarebbe necessario completare, correggendo, alla luce dei primi risultati, alcune anomalie e, soprattutto, recuperando quella 'spinta propulsiva', che ha caratterizzato la prima fase riformatrice e che ultimamente appare alquanto affievolita.

Personalmente sono convinto che sia necessario un profondo ripensamento del rapporto tra cittadini e patrimonio e anche del ruolo dello Stato (e, più in generale, di tutte le istituzioni pubbliche). Non si tratta di chiedere – sia ben chiaro – un passo indietro dello Stato, ma, al contrario, molti passi in avanti, sia pure in forme diverse. Innanzitutto superando la concezione ‘proprietaria’ del patrimonio. Troppo spesso gli specialisti (noi professori, soprintendenti, funzionari, professionisti archeologi, storici dell’arte, bibliotecari o archivisti) vengono percepiti più come i ‘proprietari’ del patrimonio culturale che come gli addetti a una delicata e preziosa funzione pubblica di conoscenza, tutela e valorizzazione. La tutela del patrimonio culturale, inoltre, ancora oggi sentita in ampi settori della società come un impedimento allo ‘sviluppo economico’, anche per gli ostacoli, i ritardi, i mille problemi che pone in occasione di lavori edili o agricoli, di costruzione di infrastrutture, di trasformazioni del territorio. Sta a noi specialisti contribuire al ribaltamento di tale immagine, modificando la percezione diffusa del patrimonio culturale da ‘problema’ a grande ‘risorsa’ per il Paese e per il suo sviluppo sostenibile, anche evitando certi atteggiamenti burocratici, spesso difficilmente comprensibili, e decisioni fortemente soggettive, quando non arbitrarie, non sempre giustificate dalla legittima e assolutamente necessaria azione di conoscenza e tutela del patrimonio. Serve una grande alleanza con i cittadini. Non basta, però, modificare le norme. È necessario promuovere un cambio di mentalità, che non può che partire ‘dal basso’, attraverso azioni di partecipazione attiva alla conoscenza, tutela, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale.

Tornando alla Convenzione di Faro, mi sembra opportuno indicare anche alcuni rischi. Il primo riguarda l’effettiva attuazione dei suoi principi, che potrebbero restare solo sulla carta: “dato che l'Italia doveva recepire queste convenzioni, si sono messe lì due frasette niente altro che per salvare la forma, dopodiché il Codice è rimasto, più o meno, una riedizione della legge del 1902” (Montella).

Un altro rischio, non meno grave, è in agguato: quello del ‘politically correct’, cioè quell’orientamento ideologico che confonde il doveroso rispetto verso tutte le persone e le tante differenze con i formalismi esasperati, le sdolcinate ipocrisie, il conformismo linguistico (e non solo), puntando, cioè, a edulcorare anche realtà difficili e sgradevoli e ignorare i conflitti. L’attenzione ai territori e ai luoghi, alle tradizioni e alle specificità, può sfociare, se non controllata e opportunamente mediata, in localismo, in campanilismo, sollecitando chiusure, conflitti e contrapposizioni, non senza fraintendimenti del concetto di identità, da anni di gran moda e spesso trasformato in una clava identitaria da brandire contro ogni forma di alterità. È un rischio oggi più che mai attuale, in un momento in cui si assiste all’emergere di populismi, nazionalismi e sovranismi.

L’obiettivo prioritario consiste nel conquistare quell’enorme fascia di ‘non pubblico’, sempre più estesa, costituita da quanti non frequentano abitualmente i musei e i luoghi della cultura, mentre trascorrono ore sui social network, nei centri commerciali e nelle sale gioco. I dati sui ‘consumi culturali’ nel nostro Paese sono notoriamente preoccupanti, con percentuali spaventose, soprattutto tra i giovani, e drammatiche al Sud. Si tratta di una vera emergenza democratica. Bisognerebbe attuare politiche di contrasto alla ‘povertà educativa’, utilizzando modalità comunicative, linguaggi e strumenti nuovi (tra cui anche i media digitali, ampiamente usati durante la fase di lockdown).

Un altro campo nel quale si sconta ancora un notevole ritardo e che meriterebbe importanti riforme è quello della gestione del patrimonio culturale. Si dovrebbe, innanzitutto, prendere atto dell’impossibilità di gestire con un’unica formula un patrimonio così ricco e diffuso come quello italiano. Nessuno mette in discussione – e certamente non lo fa chi scrive – la gestione diretta di grandi musei e parchi archeologici (ai quali opportunamente è stata attribuita l’autonomia scientifica e gestionale, che andrebbe semmai molto ampliata). Nel caso delle migliaia di piccoli siti, musei, luoghi della cultura sarebbe necessario, però, sperimentare nuove soluzioni, a seconda di ogni contesto locale. Molti sono, infatti, i beni culturali lasciati in stato di abbandono, inaccessibili, chiusi, degradati. Si individuino caso per caso le soluzioni migliori, sulla base delle competenze, delle energie, delle realtà imprenditoriali presenti localmente (fondazioni, associazioni, cooperative, singoli professionisti, ecc.), privilegiando il terzo settore, che in questo campo ha potenzialità ancore in gran parte inespresse.

Alcune novità cominciano a intravedersi anche nel MiC. Recentemente si è aperta una nuova possibilità, grazie all’introduzione nel Codice dei contratti pubblici (art. 151, c. 3) di ‘forme speciali di partenariato pubblico-privato’. Prontamente il Parco Archeologico dei Campi Flegrei, grazie alla lungimiranza del suo direttore, ha avviato una sperimentazione, con l’individuazione, a seguito di avvisi pubblici, di partner privati, privilegiando piccoli soggetti locali del territorio campano, per garantire la gestione di due dei tanti siti afferenti a questo parco diffuso: la Piscina Mirabilis di Misenum a Bacoli e il magnifico Tempio di Serapide a Pozzuoli. Due monumenti chiusi o difficilmente visitabili, finora assai poco valorizzati.

Un altro esempio che offre un segnale positivo riguarda la più grande organizzazione privata impegnata nella gestione del patrimonio culturale, sul modello del National Trust inglese: il Fondo Ambiente Italiano. Recentemente, infatti, il FAI ha compiuto un passo importante, che va oltre la tradizionale gestione dei propri siti e le sue note attività di sensibilizzazione e di partecipazione, come le ‘Giornate di Primavera’ o i ‘Luoghi del Cuore’. È stato lanciato il progetto ‘Alpe’ pensato per i siti d’altura (oltre i 600 metri) posti nelle aree interne, di cui si intende sostenere lo sviluppo basato sulla valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici con il pieno coinvolgimento delle energie locali.

In Italia molto diffuse sono le iniziative, più o meno spontanee, animate da singole associazioni, fondazioni, cooperative, piccole società o singoli professionisti, che, tra mille difficoltà, spesso combattendo le ottuse resistenze delle burocrazie e di alcuni amministratori, stanno mettendo in campo energie, entusiasmo, capacità, voglia di fare. Potrei elencare molti esempi di gestione dal basso del patrimonio culturale, ma mi limito solo al caso di Napoli, in particolare a quello più noto, ormai divenuto un caso di studio: le Catacombe di Napoli e della cooperativa ‘La Paranza’ del Rione Sanità. Si tratta di un vero modello di rinascita di un quartiere molto problematico, grazie alla creazione di significative occasioni di economia della cultura e di lavoro (oltre ai quasi quaranta giovani occupati dalla cooperativa, si devono considerare quanti operano nelle altre attività collegate, l’Officina dei Talenti, il B&B ‘Casa del Monacone’, l’orchestra giovanile, la compagnia teatrale, la sala di registrazione, ecc.). Oltre al prezioso sostegno della Fondazione Con il Sud, significativa è l’iniziativa della Fondazione San Gennaro, che raccoglie l’adesione non solo di alcuni grandi imprenditori illuminati ma anche di decine di piccoli operatori, negozianti, pizzaioli, artigiani. Nel corso di un decennio, dal 2008 al 2019, gli ingressi annui alla Catacombe sono passati da circa 8.000 a oltre 140.000 (con un ovvio calo quest’anno): al di là di questo straordinario dato numerico e all’indotto favorito dall’insieme delle attività, valutato in ben 33 milioni di euro, è la costruzione della ‘comunità di patrimonio’ del Rione Sanità a rappresentare il vero ‘miracolo di San Gennaro’.

È un esempio che dà speranza e sollecita ottimismo. Ma che impone anche risposte nuove e immediate da parte del mondo politico, culturale, universitario e imprenditoriale.

Procedere sulla strada delle riforme e dei cambiamenti, per rendere il patrimonio culturale sempre più un valore percepito da un numero sempre più ampio di persone richiede certamente competenza e professionalità, ma anche coraggio nel rimettersi in gioco, determinazione, apertura, curiosità, capacità di ascolto, lungimiranza, umiltà, generosità, etica della responsabilità e non solo etica dei principi: sono queste alcune delle doti che caratterizzano da sempre l’impegno di Carla Di Francesco.


Mio intervento il 4.9.2021 a Ferrara, Casa Romei, in occasione del premio Fidapa a Carla Di Francesco
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