Poco importa, poi, se quella foto contestata è tratta da un volume già edito (e regolarmente citato dall'autore dell'articolo) e se è già disponibile, insieme a decine di altre simili, sul web.
Racconto questo episodio, simile a molti altri, per richiamare l'attenzione su un tema che segnala un grave ritardo culturale (e normativo) del nostro Paese, legato a una concezione proprietaria del patrimonio culturale, che dura a morire. Mi sono anche chiesto: sarà questo un piccolo segnale del nuovo clima di controriforma che si comincia a respirare nel mondo dei beni culturali?
Ricordo che fino al 2014, e precisamente fino all'entrata in vigore dell'Art Bonus, nei nostri musei era proibito fotografare un manufatto archeologico, un quadro, un qualsiasi bene culturale. Con quella norma si liberalizzò (e forse un giorno nei libri di storia delle norme in materia di patrimonio culturale questa innovazione verrà riconosciuta all'ex ministro Franceschini) l'uso della fotografia nei luoghi della cultura.
Solo da quattro anni, insomma, i visitatori di musei, gallerie, pinacoteche, aree archeologiche possono scattare liberamente fotografie, con l'unica limitazione che non si utilizzi il flash e che le immagini siano utilizzate per finalità personali e culturali. In realtà, la versione originaria di quella norma prevedeva la liberalizzazione delle foto per tutti i beni culturali, ma poi una 'manina' (una questione, questa delle 'manine', di grande attualità!), modificò la norma in fase di approvazione parlamentare, e furono esclusi i beni librari e archivistici. Si è dovuto attendere il 2017, anche a seguito dell'iniziativa di un attivissimo movimento, perché anche tali limitazioni fossero finalmente eliminate.
La liberalizzazione conquistata riguarda, però, solo la riproduzione e l'uso personale.
Per pubblicare la foto di un bene culturale, anche in opere dalla finalità scientifica, cioè in articoli e volumi esito di un'attività di ricerca, è ancora necessario non solo ottenere le autorizzazioni da parte delle soprintendenze ma anche pagare dei canoni. Il limite tra finalità culturali e 'finalità di lucro' è sempre molto labile: una casa editrice, anche se piccola e specializzata in editoria scientifica, è un'impresa, che deve avere dei ricavi per non fallire.
Nel campo archivistico è stata recentemente fissata una regola per definire un limite convenzionale del fine culturale rispetto al lucro: il volume deve avere un costo di copertina non superiore a 77 euro e una tiratura inferiore a 2000 copie. I volumi scientifici effettivamente di rado raggiungono tali tirature, mentre spesso superano il costo di 77 euro (ma come nasce questo limite di 77 euro?), trattandosi di volumi anche riccamente illustrati e considerando che sempre meno frequentemente possono avvalersi di contributi pubblici per le spese di edizione.
Peraltro tali regole non valgono per gli altri ambiti (archeologico, storico-artistico, architettonico, ecc.). Se dunque un archeologo vuole pubblicare in un libro una foto, anche realizzata in proprio, di un monumento (per es. il Colosseo) deve presentare una formale richiesta di autorizzazione e provvedere normalmente al pagamento di una tariffa.
Di fatto, con regole di questo tipo, quasi tutta la produzione scientifica nel campo dei beni culturali rischia di essere fuori legge. Per i ricercatori e le piccole case editrici specialistiche si tratta di costi insostenibili, da scaricare ulteriormente sugli acquirenti, peraltro sempre più rari, comprese le biblioteche che fanno fatica a garantire l'aggiornamento bibliografico.
Si tratta, inoltre, di procedure bizantine che ingolfano inutilmente il lavoro delle soprintendenze e dei musei, a fronte di ricavi assai ridotti (in questo lo Stato rischia di apparire effettivamente un mercante un po' accattone, che specula sulla ricerca scientifica, altro che mercificazione così spesso denunciata da chi ha contrastato le recenti riforme!): lettere di richiesta di autorizzazione, cui fanno seguito tempi mediamente lunghi di risposta, solleciti, note protocollate, pagamenti con bollettini postali.
E così spesso nelle didascalie delle foto pubblicate in articoli scientifici compaiono ringraziamenti dell'autorizzazione a pubblicare una foto da parte di una soprintendenza o un museo ben più lunghi dell'indicazione stessa dell'oggetto raffigurato.
Attualmente in Italia l'unico grande museo che adotta licenze libere è il Museo Egizio di Torino, mentre sono numerosi i musei, le biblioteche, gli archivi di altri paesi che mettono a disposizione gratuitamente e ad alta definizione immagini di oggetti delle proprie collezioni (addirittura con licenze di libero riutilizzo anche commerciale), con il solo vincolo di citare la fonte.
Musei come il Rijksmuseum di Amsterdam o lo Statens Museum for Kunst di Copenhagen rinunciano agli introiti dal riuso dell'immagine per promuovere il marketing e stabilire un nuovo rapporto di collaborazione sia con gli studiosi sia con l'imprenditoria e l'industria creativa.
Quando si supereranno da noi queste regole da Stato borbonico? Quando si riterrà un beneficio per lo stesso patrimonio culturale la libera diffusione delle immagini (utili anche a promuovere lo sviluppo cultura e la ricerca, secondo il dettato degli artt. 9 e 33 della Costituzione), almeno nelle pubblicazioni con finalità scientifiche e culturali, eliminando divieti anacronistici nel mondo di Instagram, Facebook, Google?
Il nuovo ministro Alberto Bonisoli dia un segnale di apertura e di vero 'cambiamento', completando la liberalizzazione delle riproduzioni e dell'uso delle immagini del nostro ricco patrimonio culturale.