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Archeologi ... eterni studenti
La professione dell’archeologo ha conosciuto negli ultimi decenni cambiamenti profondi. Non si opera più solo nei campi tradizionali della ricerca o dell’archeologia di emergenza preventiva, cioè nello scavo, ricognizione, classificazione di manufatti, ma anche nella pianificazione, comunicazione, educazione, gestione, turismo e in molti altri ancora. Ma come e dove si formano gli archeologi di oggi e di domani?
Le Università italiane si sono variamente attivate per far fronte alle nuove esigenze, ma ancora in maniera non pienamente soddisfacente e sostanzialmente disorganica.
A un ventennio dall’introduzione del sistema 3 (=laurea)+2 (=laurea magistrale) si possono indicare luci e ombre. Le ombre sono state prodotte soprattutto dalla cattiva applicazione della riforma: corsi dai titoli e dai percorsi fantasiosi; eccesso di frammentazione degli insegnamenti; una concezione ragionieristica dello studio misurato in ore e minuti; stesse discipline (e stessi docenti) al primo, secondo (e terzo) livello; una durata effettiva non di 5 ma di 6, 7 o anche 8 anni. Le non poche luci riguardano la nascita di specifiche lauree in archeologia distinte da quelle genericamente in ‘lettere’; l’inserimento di discipline di ambito scientifico e tecnologico e di attività professionalizzanti; il riconoscimento delle attività sul campo e in laboratorio, degli stages e dei tirocini. Eppure oggi servirebbe un profondo ripensamento, ponendo definitivamente fine alla formazione di professionalità improbabili, rendendo più omogenei a livello nazionale i percorsi, eliminando l’eccesso di frammentazione e di duplicazione non solo di corsi di studio di primo e secondo livello e ma anche e soprattutto delle Scuole di Specializzazione e dei Dottorati.
Nel nostro paese sono attive ben venti Scuole di Specializzazione in Archeologia (con circa cinquecento posti messi annualmente a concorso, coperti effettivamente per meno della metà). Una realtà dal prestigio internazionale è la storica e molto qualificata Scuola Archeologica di Atene, riservata a pochi allievi e non valorizzata come meriterebbe: è l’unica scuola italiana all’estero ma è dotata di fondi e mezzi non paragonabili con quelli delle numerose scuole straniere attive in Italia e in molti altri paesi.
Indefinito è infine il numero dei Master di I e II livello, annuali o biennali. Numerosi sono i Dottorati di Ricerca istituiti nelle singole università o in forma consorziata tra più atenei, alcuni dei quali di alto profilo. Quest’anno è nato anche un Dottorato Nazionale in Heritage Science, multidisciplinare. È disponibile una quantità mai vista prima di borse, grazie ai fondi del PNRR, che ha destinato ben 600 borse specificamente ai beni culturali. Cosa succederà poi fra tre anni, finito il PNRR, non è dato di sapere. A una riduzione delle occasioni di lavoro ha corrisposto, cioè, una ipertrofica offerta formativa, che ha portato a un eccessivo allungamento del percorso con impropri accumuli di titoli di dottorato, specializzazione, perfezionamento, master.
Sarebbe opportuno garantire una solida formazione di base nel triennio, seguita da una più coerente e omogenea fase di approfondimento nella Laurea Magistrale, con significative esperienze all’estero, attività sul campo e in laboratorio, stage e tirocini. Servirebbe soprattutto una profonda riforma delle Scuole di Specializzazione (unico pezzo dell’offerta formativa universitaria rimasta fuori dai sistemi di accreditamento e valutazione, che si spera, però, siano meno burocratici e più attenti alla qualità effettiva), da ridurre nel numero e qualificare nei contenuti, stabilendo standard omogenei nazionali, con docenti di alto profilo, (ri)portando la durata a tre anni ed equiparando il titolo a quello dei Dottorati. Solo così le Scuole potrebbero diventare i veri luoghi dell’alta formazione dei professionisti del patrimonio culturale, con impostazioni interdisciplinari e anche nel campo della gestione, progettazione, pianificazione, comunicazione.
Un passo in avanti decisivo si potrà effettuare quando (e se) si darà vita ai cd. “policlinici del patrimonio culturale’, strutture miste tra MUR e MiC, di cui questa rubrica si è già occupata (AV 214). In tal modo sarebbero proprio le Scuole di Specializzazione e i Dottorati di Ricerca a costituire il ponte tra i due ministeri e il mondo delle professioni. Si porrebbe rimedio anche a uno dei principali limiti dell’attuale formazione dei futuri professionisti dell’archeologia e degli stessi funzionai del MiC, e cioè proprio l’eccessiva separazione tra mondo della formazione e mondo del lavoro e delle professioni.
Mi limito a un solo un esempio emblematico di tale distanza: mentre per altre professioni dotate di ordini si sono introdotte le lauree abilitanti, che evitano tirocini post lauream ed esami di stato per iscriversi all’ordine, inglobando tutto nel percorso universitario, per iscriversi agli elenchi degli archeologi istituiti presso il Ministero della Cultura, nelle tre fasce corrispondenti ai titoli di primo, secondo e terzo livello universitario, è richiesto un anno di attività sul campo, prescindendo dalla fascia, per cui anche un laureato triennale dovrebbe trascorrere un anno sui cantieri!
Pubblicato in Archeologia Viva, XLII, n. 218, marzo-aprile 2023, p. 80.
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