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I policlinici del patrimonio culturale, per formare i professionisti del settore

Per oltre un secolo, dall'Unità d'Italia fino al 1974, prima che Giovanni Spadolini ottenesse l'istituzione di uno specifico Ministero per il patrimonio culturale, le attività di tutela erano svolte dallo stesso Ministero che si occupava di istruzione, di università e di ricerca. La separazione fu una scelta lungimirante per poter attribuire un peso strategico specifico al patrimonio culturale nelle politiche del paese, ma ha finito per creare sempre di più un solco tra i due mondi, che, tranne casi singoli di ottima e proficua collaborazione, spesso legati solo ai buoni rapporti personali tra un docente universitario e un soprintendente, si sono troppo spesso ignorati, quando non si sono anche contrapposti. Oggi finalmente ci sono le condizioni per un riavvicinamento. Se non può essere un nuovo matrimonio, che sia almeno una "unione civile".

La visione organica, unitaria e complessa del patrimonio culturale che si va affermando, anche grazie alle recenti riforme del Mibact, richiede una reale inter- e multidisciplinarità con un ventaglio di discipline estremamente ampio, ben oltre i campi tradizionali.

Il Mibact ha istituito una specifica Direzione Generale "Educazione e Ricerca", con il compito di svolgere una funzione di interfaccia. Nel 2015 è stato sottoscritto un importante protocollo tra Miur e il Mibact: ma, com'è noto, un protocollo da solo non basta. Lo scorso luglio si è svolta, per la prima volta una seduta congiunta del Consiglio Superiore "Beni Culturali e Paesaggistici" e del Consiglio Universitario Nazionale, con i due ministri Dario Franceschini e Valeria Fedeli. È stata costituita una commissione interministeriale che ha avviato i suoi lavori.

Si punta a una revisione e migliore qualificazione del percorso formativo universitario, nei vali livelli, dal triennio fino alle specializzazioni e ai dottorati. Uno degli obiettivi strategici di questo progetto è la costituzione di nuove realtà territoriali miste, con una forte integrazione tra formazione, ricerca, tutela, valorizzazione. Sono quelli che da tempo chiamiamo, con una formula volutamente "provocatoria", i "policlinici del patrimonio culturale" (cioè unità interdisciplinari territoriali Mibact-Miur). Strutture interministeriali per certi versi simili, in campo sanitario, alle Aziende Ospedaliere Universitarie, con una collaborazione tra docenti, ricercatori, soprintendenti, funzionari, tecnici, con la condivisione di laboratori, biblioteche, strumentazioni, e con l'integrazione di competenze, saperi, professionalità, a tutto vantaggio in particolare degli studenti, cioè dei futuri funzionari o liberi professionisti. Si può immaginare un medico che non si sia formato nelle corsie, nelle sale operatorie e nei laboratori di un ospedale? E perché mai ai professionisti dei beni culturali questo tipo di formazione-esperienza lavorativa è negata in un paese come l'Italia?

Perno di tali strutture potrebbero essere le Scuole di Specializzazione, un'importante peculiarità italiana, il cui assetto andrebbe, però, rivisto, riducendone il numero, qualificandole maggiormente, stabilendo standard nazionali e sistemi di accreditamento e valutazione, possibilmente riportando la loro durata a tre anni anche per rilasciare un titolo spendibile a livello internazionale, e soprattutto prevedendo per gli specializzandi una significativa quota di lavoro (retribuito) nelle soprintendenze, nei musei e parchi, nelle biblioteche e archivi.

Attualmente alle varie scuole nel settore bei beni culturali (41 tra archeologia, storia dell'arte, architettura-restauro, antropologia, biblioteconomia, archivistica) sono iscritti non meno di 1.000 specializzandi. Ma sarebbe opportuna un'accorta azione di razionalizzazione e qualificazione, che porti a scuole più qualificate nella effettiva formazione di professionisti, eventualmente attivate da più Università consorziate, con una selezione di docenti di alto profilo (sia universitari, sia soprintendenti e funzionari, sia professionisti), in grado di garantire non solo solide competenze disciplinari settoriali ma anche capacità nel campo della gestione, progettazione, pianificazione, comunicazione, etc. Non è raro oggi che nei corsi specializzazione gli stessi professori insegnino le stesse materie dei corsi precedenti. Se fosse accolta questa proposta potremmo contare a regime non meno di 2.000 specializzandi impiegati annualmente nelle soprintendenze, nei musei, nelle biblioteche, negli archivi, nei vari istituti e luoghi della cultura, con una grande professionalità e anche con l'entusiasmo, la passione, la sensibilità e la voglia di innovazione propria dei giovani, che riceverebbero una formazione certamente più aderente alle esigenze del settore.

Considerando il costo di una borsa (pari a quella del dottorato di ricerca, circa 14.000 €/anno) il costo complessivo dell'operazione, a regime, sarebbe di circa 30 milioni l'anno, a fronte di un esercito di giovani professionisti in formazione in grado di portare nuova linfa in strutture esauste. Un costo non eccessivo che potrebbe essere suddiviso tra Mibact e Miur e vedere anche, perché no, l'apporto delle Regioni. Sarebbe un investimento notevole sui giovani e sui beni culturali, una vera "rivoluzione" che farebbe fare un salto di qualità all'università, alle soprintendenze, ai musei, e soprattutto alla tutela e alla valorizzazione del nostro straordinario patrimonio culturale.

Puublicato in http://www.huffingtonpost.it/giuliano-volpe/i-policlinici-del-patrimonio-culturale-per-formare-i-professionisti-del-settore_a_23245993/
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