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Il bene mio
Ho appena visto un bel film, tenero e denso di significato, ‘Il bene mio’ di Pippo Mezzapesa. Un Sergio Rubini straordinariamente bravo (ma in realtà tutti gli attori sono perfetti). Dialoghi ineccepibili, resi in un linguaggio e con espressioni e modi di dire pugliesi finalmente credibili.
È anche un film molto ‘archeologico’ non solo perché si svolge tra i resti di un abitato distrutto e abbandonato, mentre procedono i crolli e si formano strati archeologici simili a quelli di secoli o millenni fa che gli archeologi indagano con lo scavo. Ma soprattutto per il significato attribuito agli oggetti, ai muri, alla cultura materiale capace di conservare traccia delle persone che li hanno vissuto. È un inno alla memoria, al bisogno di ricordare.
Elia è l’ultimo e unico abitante di un paese distrutto dal terremoto. Rifiuta di andar via e non accetta la casetta A42 che il sindaco (e suo cognato) gli propone. Anche a costo di apparire pazzo, non ascolta gli inviti ad andare via che gli rivolgono alcune persone che gli vogliono bene. Accoglie con fastidio i turisti (non a caso nel film sono giapponesi o americani) che vanno in visita della città fantasma e fotografano con curiosità ma anche con superficialità le case dirute o un telone fotografico che raffigura la piazza com’era prima della tragedia. Tenta anche il suicidio quanto gli abitanti trasferiti nella new town in pianura portano via in processione la Madonnina della chiesa.
Quando poi il sindaco arriva con la polizia per portarlo via con la forza, si scopre una sorta di museo allestito da Elia con centinaia di oggetti da lui raccolti e amorevolmente restaurati ed esposti. È una specie di ‘Museo dell’innocenza’ (come quello allestito fa Orhan Pamuk a Istanbul con gli oggetti della vita quotidiana che ricordano la storia d’amore tra Kemal e la giovane Füsun e, più in generale, la storia della città). In entrambi i casi si tratta di musei nati dall’amore per una donna e per una città! È una raccolta di oggetti legati alla vita di tutti gli abitanti di Provvidenza: ognuno ne trova uno che gli ricorda la casa, gli affetti, l'infanzia, le persone che non ci sono più. E così la comunità si ritrova. Ritrova il senso di un luogo in cui è stratificata tutta la storia dei singoli e dell'intera comunità.
È quello che effettivamente dovrebbero essere tutti i musei, nei quali ognuno dovrebbe sentirsi a casa, ritrovando pezzi del proprio 'bene', della propria storia.
Ognuno dovrebbe, cioè, capire che quell'oggetto esposto in una vetrina, quel muro conservato in un sito, quel monumento posto in una città è un bene proprio. E dire: questo è 'il bene mio'!
È anche un film molto ‘archeologico’ non solo perché si svolge tra i resti di un abitato distrutto e abbandonato, mentre procedono i crolli e si formano strati archeologici simili a quelli di secoli o millenni fa che gli archeologi indagano con lo scavo. Ma soprattutto per il significato attribuito agli oggetti, ai muri, alla cultura materiale capace di conservare traccia delle persone che li hanno vissuto. È un inno alla memoria, al bisogno di ricordare.
Elia è l’ultimo e unico abitante di un paese distrutto dal terremoto. Rifiuta di andar via e non accetta la casetta A42 che il sindaco (e suo cognato) gli propone. Anche a costo di apparire pazzo, non ascolta gli inviti ad andare via che gli rivolgono alcune persone che gli vogliono bene. Accoglie con fastidio i turisti (non a caso nel film sono giapponesi o americani) che vanno in visita della città fantasma e fotografano con curiosità ma anche con superficialità le case dirute o un telone fotografico che raffigura la piazza com’era prima della tragedia. Tenta anche il suicidio quanto gli abitanti trasferiti nella new town in pianura portano via in processione la Madonnina della chiesa.
Quando poi il sindaco arriva con la polizia per portarlo via con la forza, si scopre una sorta di museo allestito da Elia con centinaia di oggetti da lui raccolti e amorevolmente restaurati ed esposti. È una specie di ‘Museo dell’innocenza’ (come quello allestito fa Orhan Pamuk a Istanbul con gli oggetti della vita quotidiana che ricordano la storia d’amore tra Kemal e la giovane Füsun e, più in generale, la storia della città). In entrambi i casi si tratta di musei nati dall’amore per una donna e per una città! È una raccolta di oggetti legati alla vita di tutti gli abitanti di Provvidenza: ognuno ne trova uno che gli ricorda la casa, gli affetti, l'infanzia, le persone che non ci sono più. E così la comunità si ritrova. Ritrova il senso di un luogo in cui è stratificata tutta la storia dei singoli e dell'intera comunità.
È quello che effettivamente dovrebbero essere tutti i musei, nei quali ognuno dovrebbe sentirsi a casa, ritrovando pezzi del proprio 'bene', della propria storia.
Ognuno dovrebbe, cioè, capire che quell'oggetto esposto in una vetrina, quel muro conservato in un sito, quel monumento posto in una città è un bene proprio. E dire: questo è 'il bene mio'!
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