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Il paesaggio si spegne ... se non si accende una scienza del territorio
In principio era il territorio! Si potrebbe sintetizzare così, con una parafrasi ‘evangelica’, il senso più profondo del nuovo bel libro di Alberto Magnaghi (Il principio territoriale, Bollati Boringhieri), architetto urbanista, professore emerito dell’Università di Firenze, fondatore e ispiratore della ‘Società dei territorialisti’ (http://www.societadeiterritorialisti.it/). In Puglia Magnaghi è noto in particolare per essere stato l’autore del Piano Paesaggistico Territoriale Regionale, promosso e fortemente voluto da Angela Barbanente, allora assessora della Giunta Vendola, il primo approvato in Italia e rapidamente divenuto un importante punto di riferimento. Chi scrive ha avuto la fortuna di partecipare al gruppo di lavoro multidisciplinare coordinato da Magnaghi: un’esperienza esaltante, una palestra che ha visto l’apporto di tanti specialisti, un vero laboratorio di elaborazione condivisa, che non solo ha prodotto uno straordinario strumento di pianificazione del territorio, ancora tutto da attuare, ma che ha anche profondamente inciso sul modo stesso di studiare il territorio, con un modello che a partire dal caso del territorio pugliese ora troviamo proposto in questo volume.
Magnaghi, prendendo le mosse dalla consapevolezza dell’assoluta necessità di una inversione di rotta rispetto al global change, con la rottura (quasi) definitiva dell’equilibrio millenario tra insediamento umano e ambiente e dai danni prodotti da una globalizzazione sfrenata gestita da «mega-apparati globali ipercentralizzati, sempre più lontani dalle vite concrete dei territori», propone come soluzione possibile un “ritorno al territorio” (e non, come certo ecologismo radicale, un ritorno alla natura). Un ritorno che si traduce cura sapiente, creativa, corale del territorio da parte dei suoi abitanti, rimettendo in discussione modelli di sviluppo fondati sullo sfruttamento selvaggio delle risorse (e delle persone).
Nella prospettiva della scuola territorialista la possibilità di affrontare complessivamente la crisi ambientale, per una ricomposizione di un rapporto equilibrato, sano, positivo tra abitanti e territorio abitato, è affidata alla capacità da parte di innovative «comunità territoriali» di ricostruire «regole, comportamenti, culture e tecniche ecologiche dell’abitare e del produrre» che, attraverso una crescita della ‘coscienza di luogo’, restituiscano agli abitanti la capacità di riproduzione dei propri ambienti di vita e di autogoverno socio-economico». Ecco definito il principio territoriale.
Così, richiamandosi alla lezione lungimirante di Adriano Olivetti, che proponeva un protagonismo attivo delle «comunità concrete» territoriali, Magnaghi lancia la sfida della creazione di un movimento «dal basso verso l’alto», nel quale svolge un ruolo centrale la «coscienza di luogo», ricca di saperi, sapienze, identità dinamiche, culture stratificatesi nel corso dei millenni: «un linguaggio che torna a essere comune da parte di una comunità locale che si autodefinisce riscoprendo i propri valori patrimoniali». È un progetto ambizioso, coraggioso, visionario e, a mio parere, perfettamente coerente con i principi non solo della Convenzione europea del Paesaggio, che quest’anno compie vent’anni, ma anche della Convenzione sul valore del patrimonio culturale per la società (Faro 2005), recentemente ratificata dal Parlamento, che affida un ruolo centrale alle “comunità di patrimonio”.
La sfida è certamente ardua, complessa, difficile ma non impossibile. Non manca chi lo accusa ingiustamente di utopismo. Semmai Magnaghi considera la sua una ‘utopia concreta’, l’unica in grado di produrre veri cambiamenti. Non si limita, infatti, solo alla raffinata e complessa riflessione teorica (direi filosofica), ma costruisce strumenti operativi, a partire dalla redazione di un dizionario territorialista, con la definizione di alcune parole chiave (tra le varie: spazio, terra, territorio, luogo, paesaggio, abitanti). Analizza sia i fenomeni di esodo dai luoghi agli spazi funzionali, allo spazio digitale, con processi di ‘deterritorializzazione’ e ‘despazializzazione’ (cioè con la rottura del rapporto tra uomo e ambiente), sia l’avvio di interessanti più recenti processi di contro-esodo, con il ritorno al territorio. La sua indagine prosegue con l’approfondimento del concetto di ‘patrimonio territoriale’, per giungere alla vera, innovativa, rivoluzionaria, proposta: la costruzione di una ‘scienza unitaria del territorio’, «in grado di affrontare olisticamente l’analisi e il progetto delle trasformazioni ambientali, urbane, territoriali e paesaggistiche». Una proposta che coinvolge tutti gli specialismi, invitati non già a rinnegare le proprie tradizioni disciplinari ma a uscire da ristetti recinti spesso autoreferenziali, a scavalcare steccati e muri più o meno alti, convergendo coraggiosamente, ciascuno con il proprio bagaglio di fonti e metodi, verso una visione organica e complessa, plurale e al tempo stesso unitaria del territorio, che diventa così il laboratorio comune, lo spazio per la riunificazione di percorsi variegati. Da archeologo non posso nascondere il piacere nel ritrovare nelle pagine di Magnaghi ampi riferimenti anche alla visione stratigrafia e contestuale propria dell’archeologia globale dei paesaggi.
Obiettivo finale è la costruzione della democrazia dei luoghi nella prospettiva di una civilizzazione eco-territorialista.
In conclusione, un libro molto stimolante, denso, ricco di idee e di proposte operative, coraggioso e carico di un entusiasmo contagioso, del tutto simile a quello di un giovane ricercatore.
Pubblicato in La Gazzeta del Mezzogiorno, 27.11.2020, pp. 14-15Ultimi post
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