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La nuova era passa per "Apulia Felix"
L’articolo di Piero Paciello sugli imprenditori ‘selvaggi’ è uno di quegli articoli molto duri. Programmaticamente molto duri. Sono articoli pensati per provocare una scossa, coerentemente con la linea di questo giornale. Vanno, quindi, decodificati, distinguendo l’aspetto volutamente polemico da quello analitico e propositivo.
Io non condivido certi toni polemici – e il direttore di questo giornale lo sa bene fin da quando ho accettato il suo invito a pubblicare miei interventi, ora raccolti in un libro che sta riscuotendo parecchio interesse e sta sollecitando interessanti momenti di partecipazione, anche e soprattutto fuori dell’ambito locale – e non amo le personalizzazioni. Conosco, in maniera diversa e con ruoli differenti, i due imprenditori tirati in ballo da Paciello quasi come modelli paradigmatici: Eliseo Zanasi nella sua veste istituzionale di Presidente della Camera di Commercio, ma anche come vice Presidente del D.A.Re.; Lello Zammarano come socio fondatore della Fondazione Apulia felix, da lui fortemente voluta. Ho il piacere di essere Presidente di questa Fondazione e l’ho conosciuto quale convinto sostenitore di progetti ambiziosi come l’acquisizione e il rilancio dell’Auditorium di Santa Chiara o di idee – che non so se sarà possibile realizzare per difficoltà burocratiche - come il recupero di Parco san Felice o il completamento del progetto del Teatro Tenda. Tempo fa mi colpì la sua determinazione nel lanciare in Fondazione l’idea di realizzare una struttura edilizia negli Ospedali Riuniti per la neonatologia. Insomma, un imprenditore intelligente, veloce, determinato, convinto, insieme agli altri soci di Apulia felix – il cui esempio, mi preme ricordarlo, al momento non è stato ancora seguito da altri – della necessità di un impegno per la città e il territorio di Capitanata. Il progetto della Fondazione, nato – mi piace ricordarlo – proprio a partire dagli stimoli di un forum organizzato da L’Attacco, rappresenta, al di là delle attività finora avviate, un segnale estremamente positivo lanciato proprio da una parte del mondo imprenditoriale. La scelta dell’aggettivo, accanto all’indicazione territoriale (Apulia, intesa come territorio storico, corrispondente alla Puglia centro-settentrionale, cioè sostanzialmente alla Daunia-Capitanata), non è casuale. Felix significa fecondo, che dà frutto, sia esso materiale o immateriale. Una produttività, cioè, che operi anche nel campo della cognizione e della bellezza in connessione con quello dell’economia, il tutto nell’ambito della civitas, della comunità. Si intende cioè trasmettere non solo un messaggio di ottimismo della volontà e di voglia di progresso, ma anche un idea di un nuovo modello di sviluppo, fondato sulla ricerca, sulla cultura, sulla solidarietà, contro ogni rischio di rassegnazione, di lamentela, di autoassoluzione e di autocommiserazione. E proprio perché la Fondazione nasce dall’iniziativa di un gruppo di imprenditori, nelle varie attività che promuoverà si cercherà sempre di favorire la nascita di piccole imprese giovanili, di creare occasioni di lavoro, di valorizzare le capacità e l’impegno dei giovani, come ad esempio si è fatto con il Premio Beccia-Ricchetti, ora alla seconda edizione, che garantisce la copertura dei costi di iscrizione all’università per numerosi giovani capaci appartenenti a famiglie non agiate.
Si tratta dunque di un piccolo grande segnale: per la prima volta a Foggia un gruppo di imprenditori, in maniera generosa e senza alcun tornaconto personale o diretto, si mette in gioco in prima persona, mette ‘mano al portafoglio’ personale, per un progetto di crescita culturale, economica e sociale di Foggia e della Capitanata, attraverso la creazione di opportunità al servizio della società nella quale opera.
Questo segnale rappresenta, a mio parere, un primo atto concreto della nuova fase di cui parla Paciello nel suo editoriale. Sono anch’io convinto che una fase si sia chiusa. Che l’economia dell’edilizia, così come l’abbiamo conosciuta finora, anche con esiti devastanti, sia finita l’ha ben compreso anche la parte più avveduta e intelligente di quella classe imprenditoriale. Sia pure in ritardo, si comincia a comprendere anche alle nostre latitudini, finalmente, che si deve puntare sul recupero di immobili storici, sulla ecosostenibilità, sulla bioarchitiettura, sull’innovazione tecnologica, sulla qualità progettuale. Più ricercatori, più progettisti, più tecnologi, più architetti di qualità, ma anche esperti di archeologia, di storia, di beni culturali e di paesaggio, di filosofia e sociologia, e meno commercialisti e avvocati: ecco cosa serve nelle imprese edili – e non solo – di oggi e del futuro. Ma soprattutto è evidente come sia necessario diversificare, cercare nuovi orizzonti, allargare il campo a livello globale, internazionalizzare, conoscere altre realtà, sviluppare forme di interdisciplinarità e di reale innovazione. La nostra Università ha dato un suo contributo anche in tal senso in questi anni, ad esempio dando vita a varie società di spin-off e a progetti d’avanguardia, che mi auguro gli imprenditori vogliano sostenere maggiormente.
Servono, infatti, imprenditori colti, sensibili, innovativi, con la consapevolezza che la vera innovazione non consiste esclusivamente in una malintesa innovazione tecnologica ma si esplica innanzitutto nell’innovazione culturale e nella creatività: doti tipicamente italiane che si sono andate perdendo e che andrebbero recuperate.
Uno dei mali della società occidentale attuale consiste nel riduzionismo e nella settorializzazione esasperata, che porta a pericolose separazioni, considerando il proprio ambito specifico come totalizzante. Al contrario, quanto più spinta si fa la specializzazione – e tutti noi sappiamo che oggi la specializzazione è necessaria ed inevitabile – tanto più i saperi si devono integrare, producendo reale interdisciplinarità e anche metadisciplinarità. Innovare vuol dire anche riscoprire le peculiarità di un territorio. Innovare significa saper tentare strade nuove anche quando si percorrono percorsi tradizionali. Vuol dire, ad esempio, ritornare all’agricoltura, coniugando tradizione e qualità dei prodotti tipici con la ricerca scientifica, con la formazione, con l’internazionalizzazione. Innovare significa porre la legalità al primo posto, senza deroghe, senza tentennamenti e senza cedimenti. Innovare significa saper dare spazio ai giovani, alla loro creatività, alle loro capacità, alle loro visioni. A giovani veri – non ai tanti giovani vecchi che popolano il mondo politico, professionale e imprenditoriale, con tutti i difetti e i limiti di chi, sgomitando, vorrebbero sostituire – portatori di idee nuove, del coraggio della sperimentazione, di orizzonti internazionali. Innovare significa puntare sulla qualità, sulle capacità e sul merito delle persone, dipendenti e collaboratori, rifiutando logiche familistiche e clientelari. Innovare significa rinunciare ai compromessi con certa politica in cambio di favori, sostenendo e favorendo la creazione di una nuova classe dirigente capace, onesta, di qualità.
In caso contrario anche per la classe imprenditoriale locale, oltre che per la città e per la società tutta, si prospetta un futuro assai buio, ben oltre i confini dell’attuale crisi.
Articolo pubblicato in L'Attacco, 4.7.2013, pp. 1, 22.
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