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Tutela, un sistema da ripensare

Come ho già detto nel mio precedente intervento, la questione delle concessioni di scavo andrebbe inquadrata nel contesto più generale del MiBAC e dei rapporti con l’Università.

L’archeologia si è andata rinnovando radicalmente nell’ultimo mezzo secolo, ha modificato i suoi metodi e i suoi obiettivi: dall’antico come luogo privilegiato del passato all’intero arco di tempo dell’esperienza umana, dal vecchio continente all’intero pianeta, dagli aspetti culturali a quelli (anche) ambientali, dall’evoluzione storica alla prospettiva (anche) antropologica, dallo studio della forma a quello della materia, dal privilegio per l’arte a quello (onnicomprensivo) per i prodotti del lavoro. Si va sempre più affermando un’archeologia realmente globale, che privilegia l’impiego integrato di una moltitudine di approcci, di fonti e di strumenti di indagine diversi e si avvale dell’apporto di una pluralità di discipline umanistiche e scientifiche, di tecniche e tecnologie innovative. Si tratta, cioè, di passare da una ‘archeologia statica’ e settoriale ad una «archeologia dinamica che cerca di definire l’evoluzione degli ambienti socioculturali nella diacronia» secondo una definizione di G.P. Brogiolo. Contestualmente all’innovazione metodologica, si è andato affermando un nuovo ruolo culturale e sociale: non a caso si va sviluppando anche in Italia l’archeologia pubblica.

A fronte del profondo processo di rinnovamento dell’archeologia in relazione alle fasi della ricerca, dalla diagnostica allo scavo stratigrafico e all’archeologia dei paesaggi, alle applicazioni delle scienze e delle tecnologie innovative, si registra un ritardo culturale e organizzativo nel sistema di tutela, definito agli inizi del secolo scorso e sostanzialmente legato ancora ad una concezione ottocentesca, caratterizzata da un’impostazione antiquaria e accademica. Gli sconvolgimenti legislativi e organizzativi degli ultimi decenni hanno reso questa struttura ancor più farraginosa ed elefantiaca, senza, però, mai mettere in discussione la sostanza, le finalità e gli esiti della tutela. I rischi di tale situazione sono assai gravi: oltre alla perdita di interi insiemi di dati, un danno ancor più rilevante consiste nella progressiva perdita di un ruolo nella società, nell’incapacità di coinvolgimento di ampi settori della popolazione in un’azione condivisa di salvaguardia e valorizzazione di un bene comune, nell’affermazione di una concezione esclusivamente turistica ed economicistica dei beni culturali (pur non essendo affatto da sottovalutare il loro apporto in termini di sviluppo anche economico), nell’identificazione della tutela solo con un’iniziativa di tipo repressivo e poliziesco, avvertita come fastidiosa e inutile, anche perché resa spesso inefficace a causa dell’inefficienza del sistema

La risposta a questi problemi non può più consistere semplicemente nell’arroccamento e nella difesa della situazione esistente o addirittura in un irrealistico e anacronistico ritorno al passato o tradursi nella mera denuncia (peraltro giusta e necessaria) delle sempre maggiori difficoltà in cui operano le Soprintendenze, prive di mezzi e di personale adeguati ai compiti assegnati.

Chi pone fortemente, come lo scrivente, il problema di un ripensamento profondo del sistema della tutela non condivide affatto certi atteggiamenti strumentalmente ostili al Ministero, tipici di certi ambienti, ma al contrario propone una battaglia nel senso dell’innovazione, fatta per il rilancio di strutture e attività ormai irrimediabilmente in crisi, con un sincero sostegno alle Soprintendenze e ai colleghi che in quelle strutture tra mille difficoltà operano. Negare la crisi, questa sì che è una posizione che porterà inevitabilmente alla dissoluzione, prima o poi, del sistema. Troppo spesso si ha l’impressione di intravvedere nell’atteggiamento di conservazione dello status quo di tanti colleghi l’immagine di un soldato messo a guardia di un bidone di benzina: un bidone, però, ormai vuoto. Un soldato, che, impegnato in battaglie contro presunti nemici esterni, non si rende conto che in realtà il tarlo sta operando all’interno del sistema della tutela.

Nel Ministero, e in particolare nelle sue articolazioni periferiche, ai problemi legati alle scarse risorse, allo scarso personale, sempre più anziano, al limitatissimo turn over, si associa una diffusa sensazione d’impotenza e di frustrazione, che spesso si traduce in arroccamento, in difesa di rendite di posizione, in contrapposizioni contro altri componenti dello stesso Stato, con le quali, al contrario, oggi più che mai sarebbe necessaria, anzi obbligata, un’alleanza.

L’affermazione del fondamentale e insostituibile ruolo pubblico della tutela non può, infatti, non tradursi in un radicale riesame del significato stesso della tutela e nella progettazione di nuove soluzioni adeguate ai tempi. Come ha sottolineato D. Manacorda, «se il passato è di tutti, il problema si sposta sulle forme in cui mettere tutti in condizione di possederlo, cioè di conoscerlo: è dunque un problema politico». La perdita di solidarietà, di sostegno, di attenzione, non solo da parte del ceto politico, ma anche, cosa più importante, da parte della società in cui operiamo, rischia di accelerare l’inesorabile disgregazione, a cui da tempo assistiamo, del sistema della tutela.

Nell’opera di tutela e valorizzazione, come in quella di ricerca, andrebbe abbandonata definitivamente una concezione ‘puntiforme’, limitata al singolo sito o manufatto, cioè quella visione ‘filatelica’ dei beni culturali che finisce per considerare i singoli ‘beni’ come francobolli, estendendo l’azione ad interi contesti territoriali. La nuova parola d’ordine deve essere, quindi, globalità: e, prima di tutto, globalità di approccio, di fonti, di strumenti, di competenze, di sensibilità. Salvatore Settis insiste da tempo sulla vera peculiarità dei beni culturali italiani, cioè la presenza diffusa, il continuum di beni, grandi e piccoli, nelle città, nelle campagne, lungo le coste, nelle acque, che contrasta con l’idea, finora prevalente, della tutela, che nella prassi finisce per frantumare proprio quel continuum peculiare del nostro patrimonio culturale. La specificità del nostro patrimonio culturale consiste invece nell’integrazione tra beni culturali e paesaggio.

Come ha più volte sottolineato Riccardo Francovich, bisogna esser consapevoli che «la tutela non è l’esercizio di un’azione asettica e oggettiva, ma l’opzione operata sulla base di scelte che cambiano nel tempo e nella qualità della formazione di chi la esercita; … è ovvio che più soggetti, più sensibilità e ‘saperi’ nuovi saranno inclusi nei processi decisionali, maggiori prospettive esisteranno per chi intende contribuire alla soluzione dei problemi della salvaguardia e della valorizzazione del patrimonio». Basti pensare all’enorme dilatazione dei campi di applicazione dell’archeologia dalla preistoria più remota all’età moderna e contemporanea, all’estensione del concetto stesso di reperto a tutti gli oggetti fino alle soglie della contemporaneità, ben oltre gli ormai tradizionali confini della stessa età medievale, all’attenzione ora riservata non solo ai manufatti ma anche agli ecofatti e all’ambiente. Solo il coinvolgimento di più soggetti e competenze potrebbe aprire maggiori prospettive per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio.

Andrebbero pertanto ripensati il ruolo e la struttura del Ministero per i Beni e le Attività culturali, riportato all’originaria fisionomia tecnico-scientifica, superando l’attuale conflitto di funzioni e di competenze tra centro e periferia e la confusione di ruoli tra Soprintendenze (settoriali e territoriali), Direzioni Regionali (uniche e territoriali) e Direzioni Generali (settoriali e nazionali).

È improprio, infatti, concentrarsi su un’alternativa tra centralismo e decentramento, mentre dovremmo preoccuparci di trasformare le strutture della tutela da apparati corporativi e autoreferenziali in strutture inclusive, capaci di coordinare, nell’interesse generale, le attività di studio, di salvaguardia e di valorizzazione del patrimonio culturale.

Servirebbero un centro agile, forte ed autorevole, con compiti di indirizzo, coordinamento e rigido controllo, garante di una politica di tutela organica sull’intero territorio nazionale, e unità operative periferiche uniche e non più settoriali. Strutture periferiche fondate su reali e strette collaborazioni, a livello locale, tra tutte le componenti del sistema pubblico. Collaborazioni non più legate esclusivamente ai momentanei buoni rapporti tra il singolo ricercatore e il soprintendente o il funzionario di zona, ma inserite in un sistema organico.

Si potrebbe dar vita anche a unità operative miste delle Soprintendenze, delle Università, delle Regioni e degli Enti locali, veri e propri ‘policlinici dell’archeologia’ (secondo una felice definizione proposta in varie occasioni da Andrea Carandini) o, meglio, policlinici dei beni culturali e del paesaggio’ (secondo una proposta spesso avanzata da chi scrive), aperti all’innovazione metodologica e tecnologica. È fin troppo evidente che la definizione di ‘policlinico’ è solo esemplificativa e quasi provocatoria, anche nella consapevolezza che essa non è sempre legata, in ambito sanitario, ad un’idea di efficienza. Gli strumenti diagnostici tipici delle moderne discipline dei beni culturali e dei paesaggi, dal telerilevamento alle prospezioni geofisiche, dalle applicazioni scientifiche in campo bioarcheologico e geoarcheologico all’archeometria e al restauro, dalla ricognizione sistematica allo scavo, dalle nuove tecniche di rilievo, documentazione e comunicazione ai sistemi informativi territoriali, potrebbero offrire un contributo straordinario. Solo così si potrebbe attuare una più efficace opera di tutela e valorizzazione diffusa, attenta ai contesti territoriali, ai centri storici e ai paesaggi stratificati, collegandola strettamente alla ricerca, abbandonando vecchie rendite di posizione, separando la gestione dal controllo (ancora oggi nelle stesse mani), e soprattutto avviando politiche ‘inclusive’ e non esclusive e ottusamente centraliste e superando definitivamente quel conflitto che oggi contrappone Soprintendenze, Università ed Enti locali, mettendo in comune strutture, competenze, professionalità.

 Articolo pubblcato in L'Attacco, 16.5.2013, pp. 1, 22


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