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Non si può affidare il sistema universitario all'algoritmo
La ricerca delle migliori modalità di reclutamento dei docenti e ricercatori universitari è antica quanto l’Università. Dal Medioevo in poi si discute di questo tema e periodicamente si modificano procedure, criteri, modalità.
Fino ad alcuni decenni fa i concorsi erano nazionali: tempi lunghissimi tra un bando e il successivo, procedure farraginose, commissioni formate o attraverso la votazione da parte dei docenti di ogni settore disciplinare o attraverso il sorteggio o con sistemi misti. Non c’è da rimpiangere quel sistema, ma non si può negare che chi superava quel concorso aveva superato una prova nazionale.
Poi, con l’affermazione dell’autonoma universitaria, i concorsi sono diventati locali, banditi da ogni Università. Con la legge di riforma del 2010 (la cd. riforma Gelmini) è stata introdotta l’Abilitazione Scientifica Nazionale, una sorta di patente da acquisire necessariamente per poter partecipare ai concorsi banditi dalle singole sedi.
Le Commissioni, composte da soli professori di prima fascia dei vari settori concorsuali (che normalmente accorpano più discipline simili), esaminano chi si candida alla abilitazione di prima (professori ordinari) o seconda fascia (professori associati), in possesso dei requisiti predeterminati a seconda dei vari settori (un certo numero di pubblicazioni, la direzione o partecipazione a progetti, a convegni, a dottorati di ricerca, ecc.). Per i settori disciplinari bibliometrici occorre il raggiungimento di soglie quantitative basate sulle citazioni.
Non tutti i docenti ordinari possono far parte delle Commissioni ma solo quelli a loro volta in possesso di alcuni parametri specifici per svolgere il ruolo di commissario.
Le Commissioni sono nazionali ed effettuano anche una valutazione qualitativa oltre che quantitativa, indispensabile in particolare nei settori umanistici, per i quali non sono disponibili criteri quantitativi, se non il numero di monografie e articoli in qualificate riviste di livello nazionale e internazionale: un parametro del tutto insufficiente per capire se un candidato merita di accedere alla prima o alla seconda fascia.
Il numero dei candidati alla ASN in questo quindicennio è stato elevato così come il numero degli abilitati (anche se mediamente, a seconda dei settori, circa la metà-due terzi dei candidati ha ottenuto l’abilitazione), ovviamente non tutti assorbiti dalle Università, con inevitabili frustrazioni. Soglie più alte e una valutazione più rigorosa avrebbero evitato una inflazione di abilitati. Insomma, un sistema certamente non perfetto, che ha, però, non solo visto un impegno enorme da parte dei commissari nella valutazione di centinaia di titoli, ma ha in qualche modo garantito il mantenimento di una valutazione di livello nazionale.
Ora la ministra Anna Maria Bernini, dopo aver costituito una commissione di esperti per la riforma della Legge Gelmini, da lei nominati e senza un confronto vero né con il Consiglio Universitario Nazionale (che rappresenta la comunità accademica nazionale) né con le numerose società scientifiche e accademiche, ha deciso di modificare le procedure mediante un disegno di legge (n. 1518), che sarà in discussione in Commissione Cultura del Senato nei prossimi giorni. Perché si ricorre a uno strumento così sbrigativo per una questione così delicata? Non sarebbe opportuno riflettere e confrontarsi maggiormente con le rappresentanze del mondo universitario. Non si tratta, infatti, di difendere acriticamente le regole attuali ma di elaborare concordemente procedure migliori che garantiscano maggiorente qualità, serietà, trasparenza e merito.
Sostanzialmente si elimina l’ASN così come ha funzionato finora introducendo un sistema automatico, basato su una sorta di autocertificazione da parte dei candidati. Non sarà più, quindi, una commissione di docenti universitari a valutare, ma un algoritmo, che deciderà l’idoneità sulla base del punteggio raggiunto. Cosa che forse potrebbe andare bene per i settori bibliometrici (ammesso che anche in questi ambiti non serva una valutazione qualitativa!) ma che segna un grave passo indietro per gli ambiti umanistici.
Per tale motivo le aree umanistiche presenti nel Consiglio Universitario Nazionale hanno espresso forti riserve in un documento che sta circolando in questi giorni.
Di fatto, con questa riforma l’Abilitazione Nazionale non avrà più alcun valore reale. Raggiunto un certo punteggio e ottenuto il semaforo verde dall’algoritmo, con commissioni composte da docenti che avranno espresso la loro disponibilità (non si capisce nell’ambito di quale procedura), sorteggiati, mentre un componente sarà designato direttamente dalla sede. Si prevede anche un seminario che i candidati ritenuti idonei dovranno tenere presso il Dipartimento che bandisce il posto: di fatto sarà il Dipartimento a scegliere, più che la Commissione. Si rafforza così, secondo la ministra, la responsabilità delle sedi locali nella scelta. Sia ben chiaro: la responsabilità è una qualità fondamentale, anche per evitare che l’autonomia si traduca in arbitrio e in favoritismi locali. Allora servirebbe un sistema forte e autorevole di valutazione.
Il disegno di legge prevede una valutazione ex post dei vincitori, dopo due anni dalla presa di servizio e successivamente ogni tre anni (anche se non sono ancora ben chiare le modalità) e penalizzazioni in termini di finanziamento ordinario per quelle sedi che non abbiano fatto un reclutamento di qualità. Una misura che dovrebbe teoricamente sollecitare la responsabilità nella fase di scelta. Bisogna, però, sperare che non prevalga il localismo sulla responsabilità perché i danni provocati si vedrebbero solo anni dopo!
Preoccupa, in particolare, il reclutamento da parte delle università telematiche, già oggi poco attente alla qualità, che con la riforma potranno scegliere senza nemmeno il filtro preventivo dell’attuale Abilitazione Scientifica Nazionale.
Preoccupa soprattutto la tenuta del sistema universitario nazionale, privo ora anche di un momento di valutazione nazionale. Per questo secondo le aree umanistiche del CUN: «il Disegno di Legge non offre un plausibile strumento per garantire al sistema universitario l’impianto pubblico e nazionale … decisivo per il futuro del Paese: ogni comma è invece al servizio di un orientamento locale che renderebbe sempre più grave per il sistema universitario il già largamente avviato cammino di disgregazione, con conseguenze negative, tramite il reclutamento dei docenti, nella didattica e nella ricerca, nella tenuta stessa di ogni Settore disciplinare, per tacere dei temibili risultati sul piano sociale o culturale».
Inoltre, il disegno di legge prevede nuove procedure per favorire la mobilità. Una cosa molto positiva in un sistema alquanto ingessato. È possibile, però, da quanto si intuisce, che le nuove norme finiscano per favorire un’emorragia dalle sedi piccole e periferiche, in particolare del Sud, verso le sedi più grandi e prestigiose, in particolare del Nord. Ecco perché il documento segnala come inevitabile: «il rischio di una radicale perdita di attrattività per le sedi periferiche, soprattutto nelle regioni meridionali, con poderosa e irrazionale crescita di personale in organico per le sedi maggiori».
Sarebbe un altro colpo, forse definitivo, al sistema universitario nazionale e soprattutto al Mezzogiorno. Un colpo che da anni si tenta in ogni modo di infliggere.
Pubblicato in Huffington Post, 4.9.2025, https://www.huffingtonpost.it/blog/2025/09/04/news/non_si_puo_affidare_il_sistema_universitario_allalgoritmo-19968032/.
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